Il commissario Arcuri
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Ai primi cinque posti tra le Regioni che hanno ricevuto dalla Protezione civile più materiale per affrontare la pandemia di Coronavirus (mascherine, tamponi, ventilatori, tute protettive, occhialini, guanti, calzari) ci sono quattro Regioni del Nord, poi il Lazio.
La “prima” del Sud è la Puglia, sesta e distanziata nei numeri: sono 152 milioni, infatti, i pezzi ricevuti dalla Lombardia, 139 milioni dal Veneto, 95 milioni dalla Emilia Romagna, 85 milioni sono stati destinati alla Toscana, 77 milioni al Lazio e, quindi, la Puglia con 74 milioni.
Le altre regioni del Mezzogiorno sono ben distanti: 39 milioni alla Sicilia, 36 milioni alla Campania, 16 milioni alla Basilicata, appena 15 milioni alla Calabria. Da marzo al 20 ottobre scorso, ultimo aggiornamento disponibile, sono stati consegnati dalla Protezione civile circa 985 milioni di materiali, di questi 471 milioni, oltre la metà, hanno avuto come destinazione Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana.
Se questa disparità di trattamento aveva una sua giustificazione la scorsa primavera, quando il Mezzogiorno fu favorito dal lockdown che limitò contagi e danni, oggi non è più così: la seconda ondata sta travolgendo il Sud quanto il Nord, basta dare uno sguardo ai dati della Campania e del Lazio.
PIÙ MASCHERINE AL NORD
Basti pensare che solo per quanto riguarda la consegna di mascherine, la Lombardia ne ha ricevute 130 milioni; 129 milioni il Veneto; 81 milioni la Toscana; 89 milioni Emilia Romagna. Poi tutte le altre: 71 milioni la Puglia, 68 milioni il Lazio, 30 milioni la Campania, 36 milioni la Sicilia, 15 milioni la Basilicata, 13 milioni la Calabria. Anche nella gestione di una pandemia ci sono due Italie. E ad essere aiutata non è quella più svantaggiata per colpa di un iniquo riparto del fondo nazionale sanitario, ma i più “ricchi”.
LO STATO SPENDE DI PIÙ PER IL SETTENTRIONE
Per la salute e le cure sanitarie dei propri cittadini, lo Stato italiano continua a fare figli e figliastri, lo dicono i numeri: per un pugliese al termine del 2020 spenderà complessivamente 1.826 euro, contro i 1.918 riservati ad un emiliano e i 1.877 ad un veneto. E’ questa la quota pro-capite che emerge dalla ripartizione del fondo dell’anno in corso. Per ogni lombardo, lo Stato destina 1.880 euro; per un campano, invece, 1.827 euro. Ma peggio va ai calabresi, ai quale spetta appena 1.800 euro a testa, contro i 1.916 euro che “riceve” ogni friulano, i 1.935 euro di spesa pro capite del Piemonte o i 1.917 euro della Toscana. Chi sperava in una inversione di rotta almeno durante una pandemia è rimasto deluso. Il Nord continua a prendere più soldi per i suoi ospedali, come accade ormai da oltre 15 anni. È lo scippo della spesa storica: alla Puglia, 4,1 milioni di abitanti, dei 113,3 miliardi complessivi, sono stati riservati 7,49 miliardi; l’Emilia Romagna (4,4 milioni di residenti) riceverà 8,44 miliardi: quasi un miliardo in più nonostante una popolazione quasi identica.
Prendendo in considerazione il Veneto (4,9 milioni di abitanti) la sproporzione resta, visto che la Regione di Zaia incassa 9,2 miliardi, quasi due in più rispetto alla regione di Michele Emiliano. Nel confronto tra il 2010 e il 2020, l’incremento percentuale del Fondo sanitario nazionale premia sempre il Nord: negli ultimi 10 anni la Lombardia ha visto aumentare la propria fetta dell’11,4%, l’Emilia Romagna del 9,9%; 8,2% in più per la Toscana. La Basilicata, invece, ha avuto un incremento percentuale molto più modesto (+4,9%); l’Abruzzo del 6,7%; Calabria +5,7%; la Puglia e la Campania di circa l’8,1%. Non solo: dal 2012 al 2017, nella ripartizione del fondo sanitario nazionale, sei regioni del Nord hanno visto aumentare la loro quota, mediamente, del 2,36%; mentre altrettante regioni del Sud, già penalizzate perché beneficiare di fette più piccole della torta dal 2009 in poi, hanno visto lievitare la loro parte solo dell’1,75%, oltre mezzo punto percentuale in meno. Tradotto in euro, significa che, dal 2012 al 2017, Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana hanno ricevuto dallo Stato poco meno di un miliardo in più (per la precisione 944 milioni) rispetto ad Abruzzo, Puglia, Molise, Basilicata, Campania e Calabria.
POSTI LETTO CERCANSI AL SUD
Questo sistematico minore trasferimento di fondi, ha finito per depauperare la sanità del Mezzogiorno, che adesso deve affrontare il coronavirus con meno posti letto e meno personale sanitario. Secondo i dati Ocse, nel 2017 l’Italia poteva contare su 2,6 posti letto in terapia intensiva ogni 1.000 abitanti, al Sud erano già appena 1,8. L’Italia si classificava al 19esimo posto su 23 paesi europei, la media europea, infatti, è di 4,5, la Germania ne ha addirittura 6). Il numero dei posti letto è crollato negli ultimi decenni. Nel 1998 erano circa 311 mila, nel 2007 erano calati di quasi 90 mila unità, arrivando a circa 225 mila e nel 2017, ultimo dato disponibile, erano circa 191 mila. In rapporto al numero di abitanti, si è passati da 5,8 posti letto ogni mille abitanti del 1998, a 4,3 nel 2007 e a 3,6 nel 2017 che diventano 2,5 al Sud. Tagli, quindi, che hanno colpito soprattutto le Regioni del Mezzogiorno che, avendo ricevuto sin dal 2000 meno soldi rispetto alle Regioni del Nord, hanno potuto investire meno sino ad essere commissariate e bloccate dallo Stato. Nel 2012 in Puglia c’erano 3,12 posti letto ogni mille residenti, nel 2018 sono scesi a 2,88 ogni mille abitanti; in Campania c’erano appena 2,76 posti letto ogni mille residenti, sei anni dopo si è passati addirittura a 2,62; in Calabria la percentuale era di 2,92, adesso è di 2,54; in Sicilia si è passati da 2,89 a 2,75 posti letto ogni mille abitanti; in Basilicata da 3,24 a 2,84. Nessuna regione del Sud, fatta eccezione per il Molise (3,08), raggiunge più la quota minima di 3 posti letto per ogni mille cittadini. Nelle Regioni del Nord, invece, il taglio dei posti letto negli ospedali è stato molto più contenuto, quasi impercettibile, tanto che sono stati mantenuti livelli accettabili: la Lombardia nel 2012 disponeva di 3,76 posti letto ogni mille residenti, oggi ne ha 3,47; il Veneto è passato da 3,44 a 3,27; il Friuli Venezia Giulia da 3,53 a 3,13; il Piemonte da 3,70 a 3,36; la Liguria da 3,44 a 3,22; l’Emilia Romagna che nel 2012 disponeva addirittura di 4,17 posti letto ogni mille cittadini, oggi comunque può contare su 3,68 posti ogni mille; l’Umbria ha persino aumentato la sua dotazione, passando da 3,12 a 3,25; unica eccezione è la Toscana scesa da 3,18 posti letto ogni mille abitanti 2,75. Il Nord, mediamente, “viaggia” su oltre tre posti letto ogni mille residenti. La fotografia è scattata dalla Corte dei Conti nel “Rapporto 2020 sul coordinamento della finanza pubblica” e “immortala”, se ce ne fosse ancora bisogno, le drastiche e inique differenze.
POCO PERSONALE
Meno posti letto, ma anche meno dipendenti per far funzionare ospedali, ambulatori, Asl, 118: in Puglia, dove si conta una popolazione di 4,1 milioni di abitanti, il personale sanitario a tempo indeterminato impegnato negli ospedali supera di poco le 35mila unità; in Emilia Romagna (4,4 milioni) i dipendenti sono invece oltre 57mila, in Veneto (4,9 milioni) quasi 58mila, in Toscana (3,7 milioni) sono quasi 49mila, in Piemonte (4,3 milioni) sono 53mila, non parliamo della Lombardia dove si sfiora le 100mila unità. La Campania, che fa 5,8 milioni di residenti, può contare soltanto su 42mila operatori sanitari, persino il Lazio (5,8 milioni di abitanti) ha appena 41mila dipendenti a tempo indeterminato al lavoro nella sua sanità. «Negli ultimi due anni – scrivono i giudici contabili – sono divenuti più evidenti gli effetti negativi di due fenomeni diversi che hanno inciso sulle dotazioni organiche del sistema di assistenza: il permanere per un lungo periodo di vincoli alla dinamica della spesa per personale e le carenze, specie in alcuni ambiti, di personale specialistico. Come messo in rilievo di recente, a seguito del blocco del turn-over nelle Regioni in piano di rientro e delle misure di contenimento delle assunzioni adottate anche in altre Regioni (con il vincolo alla spesa), negli ultimi dieci anni il personale a tempo indeterminato del Sistema sanitario nazionale è fortemente diminuito. Al 31 dicembre 2018 era inferiore a quello del 2012 per circa 25.000 lavoratori (circa 41.400 rispetto al 2008)». Le Regioni in Piano di rientro sono quelle del Sud, che per anni, 10 la Puglia ad esempio, essendo sotto il controllo dei ministeri della Salute e dell’Economia non hanno potuto assumere. «Tra il 2012 e il 2017 – si legge ancora nella relazione della Corte dei Conti – il personale (sanitario, tecnico, professionale e amministrativo) dipendente a tempo indeterminato in servizio presso le Asl, le Aziende Ospedaliere, quelle universitarie e gli IRCCS pubblici è passato da 653 mila a 626 mila con una flessione di poco meno di 27 mila unità (-4 per cento). Nello stesso periodo il ricorso a personale flessibile in crescita di 11.500 unità ha compensato questo calo solo in parte: si tratta in prevalenza di posizioni a tempo determinato, che crescono del 36,5 per cento (passando da 26.200 a 35.800), e di lavoro internale, che registra una variazione di poco meno del 45 per cento (da 4.273 a 9.576 unità». La riduzione è stata particolarmente forte nel Molise, nel Lazio e in Campania a cui sono riferibili riduzioni superiori tra il 9 e il 15 per cento. Solo poco inferiori quelle di Calabria e Sicilia, mentre Abruzzo e Puglia hanno contenuto di molto le riduzioni, soprattutto considerando gli incrementi del personale a tempo determinato. Invece, nelle Regioni non in piano, quelle del Nord, la flessione è stata molto più contenuta (-2,4 per cento).
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