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NEL 2012 in Puglia c’erano 3,12 posti letto ogni mille residenti, nel 2018 sono scesi a 2,88 ogni mille abitanti; in Campania c’erano appena 2,76 posti letto ogni mille residenti, sei anni dopo si è passati addirittura a 2,62; in Calabria la percentuale era di 2,92, adesso è di 2,54; in Sicilia si è passati da 2,89 a 2,75 posti letto ogni mille abitanti; in Basilicata da 3,24 a 2,84.

Nessuna regione del Sud, fatta eccezione per il Molise (3,08), raggiunge più la quota minima di 3 posti letto per ogni mille cittadini.

Nelle Regioni del Nord, invece, il taglio dei posti letto negli ospedali è stato molto più contenuto, quasi impercettibile, tanto che sono stati mantenuti livelli accettabili: la Lombardia nel 2012 disponeva di 3,76 posti letto ogni mille residenti, oggi ne ha 3,47; il Veneto è passato da 3,44 a 3,27; il Friuli Venezia Giulia da 3,53 a 3,13; il Piemonte da 3,70 a 3,36; la Liguria da 3,44 a 3,22; l’Emilia Romagna che nel 2012 disponeva addirittura di 4,17 posti letto ogni mille cittadini, oggi comunque può contare su 3,68 posti ogni mille; l’Umbria ha persino aumentato la sua dotazione, passando da 3,12 a 3,25; unica eccezione è la Toscana scesa da 3,18 posti letto ogni mille abitanti 2,75.

Il Nord, mediamente, “viaggia” su oltre tre posti letto ogni mille residenti.

La fotografia è scattata dalla Corte dei Conti nel “Rapporto 2020 sul coordinamento della finanza pubblica” e “immortala”, se ce ne fosse ancora bisogno, le drastiche e inique differenze tra le due Italie anche in un settore delicato come quello della salute, diritto garantito dalla Costituzione.

C’è un Paese che, negli ultimi 15 anni, ha finanziato i suoi territori facendo figli e figliastri: il Nord ha ricevuto più risorse e ha potuto assumere, costruire ospedali, mantenere livelli di organici accettabili; il Sud, invece, ha dovuto stringere la cinghia, ha dovuto fare a meno di svariati miliardi e, oggi, il gap è sotto gli occhi di tutti. Almeno di chi vuol vedere. Lo raccontano i numeri, i dati ufficiali della Corte dei Conti. Meno posti letto, ma anche meno dipendenti per far funzionare ospedali, ambulatori, Asl, 118: in Puglia, dove si conta una popolazione di 4,1 milioni di abitanti, il personale sanitario a tempo indeterminato impegnato negli ospedali supera di poco le 35mila unità; in Emilia Romagna (4,4 milioni) i dipendenti sono invece oltre 57mila, in Veneto (4,9 milioni) quasi 58mila, in Toscana (3,7 milioni) sono quasi 49mila, in Piemonte (4,3 milioni) sono 53mila, non parliamo della Lombardia dove si sfiora le 100mila unità. La Campania, che fa 5,8 milioni di residenti, può contare soltanto su 42mila operatori sanitari, persino il Lazio (5,8 milioni di abitanti) ha appena 41mila dipendenti a tempo indeterminato al lavoro nella sua sanità.

Parlare di liste di attesa e mobilità passiva a fronte di questi numeri diventa quasi superfluo: provate a immaginare una partita di calcio dove una squadra schiera regolarmente 11 giocatori e l’altra invece 5, 6 al massimo 7. Come crediate possa finire? Ecco, come si può chiedere alla Puglia, a quasi parità di popolazione, di riuscire a svolgere lo stesso numero di esami e visite mediche che si riescono a fare in Emilia Romagna che ha 22mila lavoratori in più?

“Negli ultimi due anni – scrivono i giudici contabili – sono divenuti più evidenti gli effetti negativi di due fenomeni diversi che hanno inciso sulle dotazioni organiche del sistema di assistenza: il permanere per un lungo periodo di vincoli alla dinamica della spesa per personale e le carenze, specie in alcuni ambiti, di personale specialistico. Come messo in rilievo di recente, a seguito del blocco del turn-over nelle Regioni in piano di rientro e delle misure di contenimento delle assunzioni adottate anche in altre Regioni (con il vincolo alla spesa), negli ultimi dieci anni il personale a tempo indeterminato del Sistema sanitario nazionale è fortemente diminuito. Al 31 dicembre 2018 era inferiore a quello del 2012 per circa 25.000 lavoratori (circa 41.400 rispetto al 2008)”.

Le Regioni in Piano di rientro sono quelle del Sud, che per anni, 10 la Puglia ad esempio, essendo sotto il controllo dei ministeri della Salute e dell’Economia non hanno potuto assumere. “Tra il 2012 e il 2017 – si legge ancora nella relazione della Corte dei Conti – il personale (sanitario, tecnico, professionale e amministrativo) dipendente a tempo indeterminato in servizio presso le Asl, le Aziende Ospedaliere, quelle universitarie e gli IRCCS pubblici è passato da 653 mila a 626 mila con una flessione di poco meno di 27 mila unità (-4 per cento). Nello stesso periodo il ricorso a personale flessibile in crescita di 11.500 unità ha compensato questo calo solo in parte: si tratta in prevalenza di posizioni a tempo determinato, che crescono del 36,5 per cento (passando da 26.200 a 35.800), e di lavoro internale, che registra una variazione di poco meno del 45 per cento (da 4.273 a 9.576 unità)”.

Ma, ovviamente, le assunzioni a tempo determinato non possono sopperire alla carenza negli organici per un semplice motivo: si tratta di personale che dopo 6 o 12 mesi non si vede rinnovare i contratti e si è punto e accapo.


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