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Giorgia Meloni

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Il modello del premierato agognato da Giorgia Meloni già esiste ed è quello dei Governatori regionali. Ma è in forte contrasto con la riforma dell’Autonomia differenziata


Il premierato? C’è già. I governatori delle nostre regioni lo incarnano alla perfezione. E’ grosso modo il modello agognato dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni spalmato in 20 piccoli statarelli. Funziona? Se pensiamo alla durata delle legislature sì. Garantisce stabilità, una leadership incontrastata, al riparo da imboscate, dai ricatti delle correnti e dalle fronde interne, uno schermo contro il fuoco amico e nemico. Lo statuto cambia da regione a regione ma in genere si viene eletti al primo turno, senza ballottaggio, basta un voto in più degli avversari.

Le opposizioni, anche nei casi in cui siano largamente rappresentate nel consiglio regionale, raramente toccano palla. Il presidente dell’Assemblea regionale ha un ruolo di pura rappresentanza: inaugura, taglia nastri, commemora, riceve le rappresentanze istituzionali, dichiara aperte le sedute. Un gran cerimoniere, insomma. In teoria dovrebbe avere un ruolo imparziale, farsi arbitro, ma quasi mai smette i panni del partito o del gruppo che a livello locale rappresenta.

In questo schema “presidenzialista”, ormai largamente collaudato, le giunte regionali hanno dimostrato negli anni una loro solidità. A decidere tutto è il governatore-padrone, signore assoluto del suo Principato. Se cade – e a volte succede – è in genere sotto i colpi della magistratura. Inchieste che lo riguardano o che investono i suoi collaboratori più stretti. E qui potremmo elencare tutte le volte che un presidente di Regione è stato disarcionato e dunque spinto alle dimissioni.

Se si esclude il caso-Marrazzo, travolto da uno scandalo a sfondo sessuale, nella maggior parte dei casi – leggi per restare sull’attualità i presidenti di Liguria e Sardegna – le inchieste si basano su intercettazioni che configurano conflitti di interessi, rapporti preferenziali con questa o quella lobby, concessioni in cambio di finanziamenti, favori o voti. Sappiamo – lo ha scritto in un suo libro Alessandro Barbano – che l’Italia è una Repubblica fondata sull’equivoco di parole captate male, trascritte e interpretate peggio” .Quando i troyan non svelano reati punibili penalmente, descrivono comunque una realtà inquietante, una ragnatela fittissima di clientele. Perforare questi favoritismi locali, inserirsi in “un territorio straniero”, aggiudicarsi un appalto per un’azienda che opera in più regioni può diventare un’impresa difficilissima. Il sistema di regole del nostro strambo federalismo non aiuta. Peggio ancora sarà quando le regioni ordinarie, ottenuta l’autonomia differenziata, potranno legiferare in materie finora di competenza statale.

Che poi a volte si tratti di avventurose investigazioni, azzardi, ubriacature giudiziarie, conversazioni acquisite da remoto, blitz ad orologeria, questo è un altro discorso e attiene alle storture della giustizia italiana.

Dicevamo all’inizio delle affinità tra i due ruoli. Gli attuali governatori – e ne potremmo citare molti che interpretano il loro mandato in modo assolutistico – corrispondono all’identikit descritto nel disegno di legge in discussione in questi giorni a Palazzo Madama. Superuomini dotati di poteri speciali, il che, sia chiaro, non assicura di per sé il buon governo. Anzi. Per buttarli giù dal piedistallo occorre un decreto motivato del presidente della Repubblica in cui si dispone lo scioglimento del Consiglio regionale e la rimozione del presidente della giunta. E sempre a condizione che abbiano compiuto atti contrari alla Costituzione o gravi violazioni di legge.

Il Consiglio regionale può esprimere la sfiducia nei confronti del presidente della regione solo mediante mozione motivata, sottoscritta da almeno un quinto dei suoi componenti e approvata per appello nominale a maggioranza assoluta dei consiglieri regionali. Va da sé che perché questo accada deve verificare un sisma politico ad un certo grado della scala Mercalli. ll presidente della giunta rappresenta dunque la Regione; dirige la politica della giunta e ne è responsabile; promulga le leggi ed emana i regolamenti regionali; dirige le funzioni amministrative delegate dallo Stato alla Regione, sia pure “conformandosi alle istruzioni del governo della Repubblica”.

Per governare non servono superpoteri, come insegna Machiavelli occorrono altre qualità: “l’adattabilità, la prudenza, evitare di incorrere nell’odio dei sudditi, essere virtuoso”, tanto per citare “il Principe” .

I nostri governatori vivono invece in un fortino. In un equilibrio complesso di pesi senza contrappesi adeguati. Alcuni – tanto per non fare nomi: il lombardo Attilio Fontana, il veneto Luca Zaia, detto il “doge” , e l’emiliano-romagnolo Stefano Bonaccini – chiedono ancora più autonomia per gestire i loro territori. Dimenticano che all’epoca, quando il regionalismo previsto dalla nostra Costituzione trovò attuazione, la dottrina era molto divisa. Venne sollevata ad esempio la questione relativa al “cumulo di cariche”. C’era chi riteneva che vi dovesse essere una netta separazione tra le funzioni affidate al presidente in qualità di Presidente della Regione, funzioni esercitate in piena indipendenza, fuori di qualsiasi influenza politica, e quelle attribuite in qualità di presidente della Giunta . Prevalse l’opinione secondo la quale la figura presidenziale doveva essere ricostruita in modo unitario, poiché anche nella funzione di semplice rappresentanza, il presidente avrebbe dovuto perseguire l’indirizzo politico della maggioranza.

E’ stato infine già notato da eminenti costituzionalisti come Premierato e Autonomia differenziata siano in nette contraddizione. Nel primo caso si accentrano i poteri su Palazzo Chigi fino ad oscurare quelli del Quirinale, riducendo il Capo dello Stato ad una “firmacarte”. Nel secondo si decentra, cedendo alla regioni che ne faranno richiesta la gestione di funzioni ora prerogativa dello Stato. Due riforme schizofreniche in direzione ostinata e contraria.


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