Mario Draghi
4 minuti per la letturaFermo restando che tutto può e deve ancora succedere e che quindi per capire come andrà a finire, compreso l’esito meno ipotizzabile, serve una sfera di cristallo bella grossa, la conferenza stampa di fine anno di Mario Draghi, opportunamente anticipata, ha fugato due leggende metropolitane che nelle ultime settimane hanno confuso e inquinato il confronto politico in vista dell’elezione del nuovo capo dello Stato.
La prima è che si poteva considerare ipotesi praticabile un bis del mandato di Sergio Mattarella. Fiutata subito l’aria, il presidente della Repubblica si è premurato in ogni dove e in qualunque occasione per spiegare che era indisponibile. Ma la paura di scegliere da parte delle forze politiche e l’ipocrisia che sempre ammanta simili comportamenti, aveva Green tuo in piedi una eventualità già rigettata.
Il capo del governo – una parte con il detto, un’altra con il non detto – ha spiegato che a suo avviso il settennato di Mattarella è stato esemplare come garante della Costituzione ed arbitro del gioco politico. Un esempio da imitare, non un simulacro da imbalsamare. La prosecuzione del mandato poteva forse avvenire se tutti Grandi Elettori avessero invocato il bis, pronti a votarlo fin dal primo scrutinio. Una unanimità che non avrebbe fugato le perplessità di Mattarella ma forse lo avrebbe indotto a ritenere che il meglio troppo spesso risulta nemico del bene. Così non è, così non sarà. Fine del discorso.
La seconda leggenda sfatata è che se davvero voleva arrivare sul Colle, SuperMario avrebbe dovuto dirlo esplicitamente, candidandosi. Una pretesa figlia dell’irresolutezza dei partiti a farsi carico di una pronuncia impegnativa e vincolante. Ebbene Draghi, col pragmatismo che lo contraddistingue, ha spiegato molto semplicemente che sarebbe “miracolistico” che la maggioranza di larghe intese che oggi sorregge l’attuale esecutivo si spaccasse sulla scelta del nuovo Presidente e poi tornasse con una semplice giravolta a compattarsi per proseguire l’azione di governo. “Se un fatto simile sia possibile è una domanda che ci dobbiamo porre”, ha scandito il presidente del Consiglio. Ma nella domanda c’è già la risposta: che è un no.
Questo SuperMario non l’ha detto ma appunto quel non detto ha la stessa forza di quanto esplicitato. Nessuno diverso da lui è oggi in grado di coagulare un consenso capace di reggere l’urto della crisi di sistema che attanaglia il Paese. Non si tratta di una forzatura o il segno di una esibita supponenza: piuttosto la presa d’atto di una realtà oggettiva, che nessuno può permettersi il lusso di ignorare o bypassare.
Naturalmente tutto è nelle mani del Parlamento che in un sistema democratico come il nostro è al centro di ogni soluzione e funge da raccordo istituzionale con i cittadini. Non deve sorprendere il fatto che il capo del governo abbia reso più volte omaggio ai partiti che seppur tra loro diversi hanno sostenuto con lealtà il governo, “sapendo quanto è difficile” far collaborare forze politiche che hanno identità addirittura opposte; né che abbia voluto ribadire che solo il Parlamento è responsabile della vita e della morte dei governi e della tenuta delle istituzioni. Qualcuno può averci visto una captatio benevolentiae per guadagnarsi i voti necessari ad essere eletto magari già alla prima chiama dei Grandi Elettori. Può essere, Draghi non è uno sprovveduto.
Ma quell’omaggio è anche la confutazione del fatto che il supertecnico si senta due o tre gradini sopra gli altri e tenga a debita distanza, quasi non volesse inquinarsi, i leader delle forze politiche. Non c’è freddezza o senso di superiorità nel rapporto tra il premier e i capi della sua maggioranza. Piuttosto il rispetto dei ruoli reciproci e la necessità che quel rispetto non si tramuti in acquiescenza o soggezione tale da impedire di decidere e provocare l’immobilismo. Forse più sotterraneo c’è anche il messaggio che se dovesse succedere a Mattarella, Draghi non sarà un presidente della Repubblica interventista ma eserciterà il mandato in costante rapporto con le Camere.
Adesso, mentre l’appuntamento si avvicina, ciascuno è messo di fronte alle proprie responsabilità. Draghi non si sottrae alle sue, è persuaso che le persone contano ma anche di aver centrato alcuni obiettivi fondamentali, sia sul fronte vaccinale sia su quello dei 51 progetti connessi al Pnrr tutti completati, in modo tale che chiunque dovesse prendere il suo posto potrà muoversi entro argini ben saldi e ben definiti. Che è poi un modo piuttosto esplicito di chiarire che se anche ci fosse un cambio di guardia a palazzo Chigi, l’azione di governo non ne verrebbe compromessa.
Ora tocca alle forze politiche prendersi le loro, individuando un percorso condiviso per salvaguardare sia la presidenza della Repubblica che quella del Consiglio. Perché poi al fondo il più significativo messaggio politico espresso da Draghi sta nel fatto che solo una maggioranza larga può guidare l’Italia in una fase così complessa. Se ci si divide in fazioni, come troppo spesso la nostra politica ama fare, allora tutto è messo a rischio perché una sola parte non ce la farà a reggere il peso della governabilità necessaria. Serve il massimo apporto possibile, nessuno deve o può tirarsi indietro. È la lezione che arriva da un nonno sempre a disposizione delle istituzioni. Noi ce l’abbiamo; in tanti ce lo invidiano.
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