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Attilio Fontana e Luca Zaia

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Il tricolore è un orpello necessario, una forma di galateo istituzionale, un accessorio pronto all’uso. Ma le affinità sono altrove ed entrambi i due uomini di cui parleremo non perdono occasione per ricordarlo. Sono affinità legate al territorio, rivolte al popolo dell’autonomia. Da sempre il sogno di Attilio Fontana e Luca Zaia, presidente della Regione Lombardia il primo, del Veneto il secondo.

Entrambi si definiscono “governatori”, anche se questo sostantivo non compare in nessuna riga della nostra Costituzione e anche se in passato si è utilizzato per designare l’autorità politica di un territorio occupato con poteri sia civili sia militari. Non passa giorno che Fontana e il suo collega Zaia non chiedano “più autonomia”. Se non lo fa l’uno ci pensa l’altro. Se alle fermate i tram non passano puntuali e i loro cittadini protestano; se i rifiuti invadono le strade, se si blocca l’iter di qualsiasi cosa; se le terapie intensive sono allo stremo, se sopprimono una edizione del tg locale, la parolina magica è sempre la stessa: autonomia preceduta del segno +.

Non siamo, chiaro, ai livelli di Carles Puigdemont, l’ex presidente catalano accusato di sedizione. I nostri due presidenti – bontà loro – limitano le loro richieste alla gestione di alcune materie attualmente di competenza dello Stato, possibilità che gli viene data dalla riforma del Titolo V, riforma incompleta, maturata nel periodo in cui la Lega nord in crescita nelle urne e nei sondaggi chiedeva la concorrenza amministrativa con lo Stato e sognava la secessione. Non materie qualsiasi, dunque, ma roba seria. Devoluzione di Istruzione, Sanità, Sicurezza, in tutto 23 materie in grado di sburocratizzare, semplificare efficientare. Lasciare che a gestire questi capisaldi continui a essere il governo centrale sarebbe, secondo la coppia di presidenti, un inutile “dispendio di tempi, energie e risorse”.

Strada facendo l’aspirazione ad ottenere “più autonomia” ha prevalso sul ruolo istituzionale dei cosiddetti “governatori”. Più attenti alla forma che alla sostanza. È servita a mascherare una incapacità di gestione. “Fontana e Zaia rivendicano più autonomia ma ogni volta che potrebbero esercitarla chiedono a Roma di farlo – osserva Samuel Astuti, consigliere regionale Pd – tamponi, vaccini Rsa, istituzione della zona rossa, è una costante. I primi a depauperare questa parola sono loro, l’hanno trasformata in una foglia di fico per giustificare le loro incapacità”.

Eurostat ha pubblicato di recente i dati del Regional Yearbook 2021: la Lombardia per gli effetti della prima ondata ha il record europeo dei morti per Covid-19, da marzo a maggio 2020, 458 decessi settimanali, 2,5 volte superiore allo stesso valore registrato nel periodo 2016-2019. Ma Fontana, ex sindaco di Varese e leghista legato da sempre a Matteo Salvini, ha scritto insieme a Zaia al Corriere della Sera che ” la pandemia ha dimostrato che è necessario avere istituzioni locali che rispondano ai cittadini del proprio operato”.

Non importa che il Dipartimento affari legislativi della presidenza del Consiglio (Dagli) e l’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) abbiano bocciato la proposta di regionalizzazione della scuola che tra l’altro avrebbe avviato un progetto separatista da sempre nel cuore dei due governatori. Che nell’arco di un paio di anni siano stati cambiati tre responsabili del Welfare e altrettanti di Aria, l’azienda che gestisce la sanità lombarda. Bisogna animare la scena, suonare la grancassa. Il sogno è portare le sedi della Rai a Milano, trasformare la Tgr in una sorta di Tele-Fontana, nominare i responsabili delle testate, mettere sulla cattedra professori lombardi che insegnano ad alunni lombardi, scelti in base a concorsi e graduatorie gestite direttamente dal Pirellone perché, scrivono in tandem i due presidenti “non è un mistero che per i servizi gestiti dallo Stato ci siano amministrazioni meno performanti”.

La concretizzazione di tutto questo si traduce in un possibile “regionalismo rafforzato”, una generalizzazione delle Regioni a statuto speciale dove il principio della sussidiarietà è destinato a sostituire per sempre solidarietà e perequazione, le linee guida della nostra Carta.

Uno studio sul conflitto Stato-Regioni, conflitto che ingolfa la Corte costituzionale e ritarda l’iter di molti provvedimenti, firmato da tre docenti universitari di tre diversi Atenei, Alice Cauduro, Amedeo Di Maio e Antonio Di Majo, ha bocciato le pretese dei sedicenti governatori dimostrando come nella crisi pandemica ne abbiano combinate di ogni tipo, litigando un giorno sì e l’altro pure con lo Stato centrale.

Eppure intervengono su tutto continuando a sbandierare il tricolore ma solo per lo stretto necessario. Le divergenze sulle modalità di gestione della Pandemia hanno evidenziato tutti i limiti della ripartizione dei poteri tra i due livelli di governo. “A causa del federalismo regionalistico e della conseguente crisi delle istituzioni centrali l’Italia di oggi si ritrova spaccata in due come nel periodo repubblicano non è mai stata – ha scritto sul Corriere lo storico Ernesto Galli della Loggia. Per il quale il nostro “para-federalismo regionalistico” ha comportato “lo smantellamento di fatto o addirittura la vera e propria cancellazione degli organismi che componevano la vasta rete delle amministrazioni periferiche dello Stato”.

Gli Zaia e i Fontana di ieri e di oggi hanno puntato a mettere i loro uomini nei centri vitali. Provveditorati, Beni culturali, persino nelle prefetture e nei telegiornali del servizio pubblico. Un assalto alla diligenza per riempire i vuoti dello “Stato perduto”.

L’AUTONOMIA? LA LEGA NON L’HA VOLUTA

Va da sé che questo tipo di narrazione non sia piaciuta ai due presidenti. Entrambi convinti sostenitori che la vera autonomia – e qui andiamo al sodo – passi attraverso le implicazioni economiche che avrebbe un nuovo federalismo fiscale. Con livelli di compartecipazioni affidati al “buon cuore” delle regioni più ricche, come vorrebbero i due presidenti lasciando sui loro territori il cosiddetto “residuo fiscale”.

Alla fine le strade, portano sempre lì. Ai soldi. “Chi non ha voluto l’autonomia è stata proprio la Lega – fa notare Matteo Piloni, anche lui consigliere dem in Consiglio regionale – sui tavoli di Roberto Maroni ma anche di Luca Zaia quando era ministro dell’Agricoltura sono passati diversi dossier eppure non se n’è fatto niente. Chiedono più autonomia ma intento perdono terreno nelle materia dove già amministrano autonomamente. Pianificazione, trasporti, sanità, formazione. Per reddito pro-capite al ricca Lombardia – continua Piloni – è passata dal 14° posto in Europa al 36° , ha perso 20 posizioni in altrettanti anni. La povertà assoluta tra il 2005 e il 2019 è triplicata e ne 2020 è arrivata a sfiorare la media italiana”.

LA VITTORIA MUTILATA

L’Istat ha varato le nuove previsioni per il prossimo mezzo secolo. Nel 2070 saremo scesi a 47 milioni di persone. Il Nord spopolato. Nella sola Lombardia dal 2009 a oggi i nuovi nati sono diminuiti del 25%. Un orizzonte demografico color nero pece che – profezie malthusiane a parte – dovrebbe suggerire un cambiamento di rotta. Si torna invece alle solite litanìe. La Lombardia è solo ottava in Italia per spesa in ricerca e sviluppo, penultima se si considera la componente pubblica. Di chi è la colpa? “Dello Stato che non ci dà più autonomia”, riecheggia il solito refrain. Cala la formazione permanente, soprattutto per le donne e la banda ultralarga fuori dalle province di Monza e Brianza copre non più del 48% della popolazione. Perché? “Per lo stop al cantiere dell’autonomia differenziata”. Per valore aggiunto della produzione l’industria lombarda è solo settimana in Italia? Chi far salire sul banco degli imputati? Il colpevole è sempre lo stesso, il governo centrale che blocca il processo, lo stallo delle legge-quadro che dovrebbe dare attuazione all’autonomia.

Idem se parliamo del Veneto. La responsabilità di tutti gli insuccessi, compresa la disastrosa gestione della Pandemia, rimane nell’immaginario lombardo-veneto la “vittoria mutilata”, quel referendum del 22 ottobre 2017 che avrebbe dovuto dare il via alla svolta ed è diventata la foglia di fico, l’alibi che giustifica tutto e il contrario di tutto.


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