I presidenti di Lombardia e Veneto, Attilio Fontana e Luca Zaia
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SE E’ vero che tre indizi fanno una prova c’è il rischio concreto che presto si torni a parlare di autonomia regionale. Che vorrebbe dire riesumare quel sogno in avanzato stato di decomposizione che la Lega resuscita tutte le volte che le cose si mettono male. Tipo ora, con il Capitano in stato confusionale e i sondaggi in caduta libera.
La trama che ci viene rappresentata nei corridoi di Montecitorio tra chi segue l’iter di queste vicende potrebbe sembrare a prima vista inverosimile. Che credibilità avrebbero i rigurgiti autonomisti in un quadro di arretramento dei populismi e del sovranismo? E proprio ora che Bruxelles ci invia sulla corsia di emergenza e a sirene spiegate i fondi per rianimare quel che resta del Sud?
È un fatto, però, che nella giostra dei provvedimenti che il governo Draghi si accinge ad adottare sarà inevitabile scontentare qualcuno. Previdenza, cuneo fiscale, sanità, reddito, superbonus. I dossier aperti sono tanti. Ognuno tira il premier per la giacchetta. Qualcosa bisogna ottenere. Qualcosa concedere, ognuno per la sua quota parte.
IL CONTENTINO
In questa spartizione della posta in palio c’è chi vorrebbe dare un contentino al Carroccio. Quale? L’autonomia differenziata. Ma non il vecchio disegno che assecondava le smanie secessioniste, grottesco tentativo di colonizzare l’altra parte del Paese. Non le suggestioni bossiane, il sacro fiume Po, le ampolle divinatorie. Militanti abbigliati da Ostrogoti, adunate preistoriche (poco è mancato che intervenissero sanitari a prescrivere ai partecipanti il Tso). Parliamo di un’autonomia depotenziata, una mezza porzione, giacché chiederla intera dopo l’abbuffata di disastri della gestione del Covid è sembrato eccessivo anche agli stessi governatori.
LABORATORIO LOMBARDO-VENETO
Ed ecco che il cantiere dismesso del regionalismo differenziato, un ectoplasma che oscillava ormai tra il regno dei vivi e quello dei morti, si rimette in moto, anche grazie a un colpo di mano, la legge quadro sull’autonomia differenziata inserita tra i “collegati” alla Nota di bilancio. Il dossier sta essere rispolverato, dalla prossima settimana i tecnici del ministero dell’Economia avranno tra le mani la relazione stilata dalla commissione di studio nominata dalla ministra agli Affari regionali Mariastella Gelmini, guidata dal professor Beniamino Caravita di Toritto.
Il documento, nella sua prima stesura, aveva mandato su tutte le furie il governatore del Veneto Luca Zaia, che avrebbe voluto coronare il suo sogno in concomitanza con la ricorrenza del 22 ottobre scorso, a 4 anni esatti dal referendum-farsa che si tenne in Veneto e in Lombardia. Davide Caparini, assessore regionale al Bilancio della Lombardia, e Stefano Bruno Galli, docente di Dottrine politiche e assessore all’Autonomia hanno incontrato Maurizio Gasperin, direttore dell’Area programmazione e sviluppo strategico della Regione Veneto.
Fonti ben informate sostengono che la nuova proposta sarà al ribasso. Non più tutte le 23 materie richieste; via anche la questione del recupero del residuo fiscale, ma solo una estensione graduale e progressiva delle competenze regionali. La Lega, pur di arrivare a dama, sarebbe insomma disposta a rinunciare ad alcune richieste iniziali rimandando a una seconda fase l’allargamento dell’autonomia.
Quella che fino a ieri – dopo l’apertura del sottosegretario Besso (Pd) durante il governo Gentiloni e la firma dei pre-accordi – venivano considerate proposte irricevibili ora vengono prese in considerazione. Una vittoria di Pirro ma pur sempre una vittoria, Meglio di niente.
Fuori dall’intesa, come abbiamo anticipato su queste colonne l’estate scorsa, resterebbe l’Istruzione. Un trasferimento di funzioni e personale troppo complesso, irrealizzabile. Era il cuore dell’autonomia ma resterà in capo allo Stato, i governatori delle regioni più autonomiste se ne dovranno fare una ragione. Il modello ricalca grosso modo quello ipotizzato dall’Emilia-Romagna, la terza regione che ha intrapreso però un percorso molto diverso e meno conflittuale. L’intesa Stato-Regioni dovrà passare al vaglio del Parlamento e avere il via libera da una maggioranza qualificata. Un iter lungo e complesso.
ROMA CAPITALE MERCE DI SCAMBIO
Il termine per il federalismo è stato fissato al primo quadrimestre del 2026, una data strettamente legata alla definizione dei Lep, i livelli delle prestazioni. Ai leghisti è sembrata troppo lontana. Da qui il pressing per disegnare un nuovo percorso e portare a casa l’intesa. E Roma? La mancata attuazione della riforma del Titolo V 2001 ha lasciato in sospeso anche i poteri della Capitale, il suo status.
Una battaglia che i sindaci di sinistra e di destra – Virginia Raggi e il M5S molto meno – hanno condotto senza riuscire a portare a casa l’osso. In ballo c’è la gestione del Giubileo 2025, ci sono i fondi del Pnrr e l’Expo 2030. Senza poteri speciali l’inquilino del Campidoglio continuerà ad avere le mani legate e resterà un modello molto lontano rispetto alle omologhe Parigi, Madrid, Londra che hanno mezzi e poteri per esercitare il loro ruolo di capitali europee.
Proprio ieri su questo tema (cioè le proposte di modifica dell’articolo 114 in materia di ordinamento e poteri), era prevista l’audizione in commissione Affari costituzionali della Camera della Gelmini, ma la seduta è stata sconvocata. Sul piatto della bilancia c’è il pacchetto Roma Capitale, congelato per l’ostruzionismo della Lega e l’indifferenza delle lobby “non romane”. La ministra bresciana è pronta a dare segnali di apertura. L’autonomia, sia pure depotenziata, val bene una messa.
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