Silvio Berlusconi e, sullo sfondo, Paolo Gentiloni
4 minuti per la letturaPRIMA bisogna costruire le condizioni politiche, poi si scelgono gli uomini. In questo i caso i candidati/e.
È un teorema da tener ben presente all’avvicinarsi della scadenza dell’elezione del nuovo capo dello Stato. Formalmente è corretto dire che bisogna affrontare la questione solo nell’imminenza della convocazione dei Grandi Elettori. Politicamente, se si vogliono raggiungere dei risultati in una situazione scombiccherata come quella italiana, è necessario abbandonare ogni ipocrisia e mettersi al lavoro con buon anticipo per non farsi trovare impreparati al momento delle scelte.
Vediamo. Centrodestra e centrosinistra che, con l’eccezione della Meloni e dei pentastellati duri e puri, formano la maggioranza di larghe intese a sostegno del governo di Mario Draghi, al momento hanno imboccato la strada sbagliata. Nel senso che si stanno premunendo di individuare quelli che una volta si sarebbero chiamati i “candidati di bandiera”, esponenti sia autorevoli che autorevolissimi, messi in pista non perché possibili vincitori ma perché utili a tenere le carte coperte e vedere cosa succedeva nel campo avverso.
Silvio Berlusconi corrisponde alla perfezione all’identikit. Mette d’accordo tutto il centrodestra non perché non ci siano, chiamiamole perplessità, sulle sue chances bensì perché consente a quello schieramento di chiudere le polemiche interne e dimostrare di poter condizionare l’esito degli scrutini.
Incontrando “privatamente” (categoria che in politica è decisamente eterea) Giuseppe Conte, il leader Pd Enrico Letta prova a stoppare lo schieramento avversario opponendogli le stesse armi. Solo che da questa parte è più difficile. Se infatti il Cav ha il prestigio sufficiente per imporsi in questa fase chiamiamola di studio, il Pd non ha la stessa facoltà. Il nome, vera o falsa che sia l’indiscrezione, gettato lì e cioè l’ex premier Paolo Gentiloni, non ha incontrato il consenso del capo del M5S. Si capisce perché. Se infatti il centrodestra è un amalgama fittizio, l’asse Pd-Cinquestelle è tutto da costruire e i successi amministrativi non costituiscono mastice sufficiente per un’alleanza strutturale.
Ma il punto è che seppure il candidato “giallorosso” fosse individuato, le cose non cambierebbero. La realtà è che per la prima volta non c’è uno schieramento che, anche se solo formalmente, ha i numeri per eleggere da solo il presidente della Repubblica. L’agglomerato Fdi-Lega-FI e centristi, infatti raggiunge quota 451; l’insieme M5S, Pd, e cespugli – Renzi però permettendo con i suoi 35 parlamentari – arriva a 494. La maggioranza necessaria al quarto scrutinio per eleggere il capo dello Stato è pari a 505 voti su 1008 aventi diritto. Al centrosinistra mancavano 11 “responsabili”, al centrodestra 54. Si possono trovare, ma ovviamente solo vengono ammainati gli uomini-bandiera.
Così, dopo l’escursione “numerologica”, possiamo tornare al nocciolo politico. È complicato contestare che se si va allo scontro per lo scontro il pericolo è che alla fine, per estenuazione, la cosa sfugga di mano e si arrivi ad eleggere un presidente “per caso”, purchessia. Non la soluzione ottimale. Meglio sarebbe se si imbastisse una intesa tra le principali forze politiche che producesse l’indicazione di un candidato autorevole, competente e prestigioso. Destra e sinistra insomma – magari con l’avallo dei centristi variamente collocati – o pezzi importanti di entrambi gli schieramenti potrebbero/dovrebbero fare uno sforzo unitario, più o meno come avvenuto ad inizio anno per la costituzione del supporto politico-parlamentare al governo di SuperMario Draghi. Perciò: prima costruire le condizioni politiche, e solo dopo individuare il o i nomi giusti. Al momento sembra un’arrampicata di difficoltà nono grado livello c. O fantapolitica del tipo onirico. Può essere.
Tuttavia il percorso migliore per evitare morti e feriti (politici, of course) nel passaggio più importante della legislatura è quello dell’accordo, non delle barricate. E ai più scettici può essere indicato un esempio virtuoso che matura proprio in queste ore. Com’è noto tra i mestieri più usuranti e a rischio c’è quello di sindaco. I primi cittadini infatti quasi obbligatoriamente incappano nelle maglie giudiziarie e vedono ridursi a zero la loro discrezionalità spesso e volentieri per cose minimali (ricordate la sindaca di Crema indagata perché un bambino si era schiacciato un dito?) o per decisioni prese che poi diventano abuso d’ufficio. È un grido di dolore che arriva da sindaci di ogni colore politico. E allora il Parlamento sta correndo ai ripari. Al Senato ci sono tre proposte di legge di Pd, Lega e M5S che vengono unificate in Commissione per produrre un testo unico da sottoporre all’aula la prossima settimana. E anche alla Camera il percorso comune è avviato, in questo caso con l’ausilio anche di Forza Italia.
Dunque le larghe intese non sono solo una categoria dello spirito o l’espressione di un obbligato opportunismo. Su temi specifici i tre maggiori partiti possono dialogare e perfino accordarsi. Succede – e in politica è un altro assioma – quando vengono tutelati gli interessi di ciascun azionista. Può valere per preservare i sindaci e non per individuare il capo dello Stato? Sembra impossibile. Sembra fantapolitica col segno opposto.
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