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È in Europa che si compie il nostro destino ed è all’Europa che dovremmo guardare. Soprattutto in uno di quei momenti che “davvero preoccupano”, come l’ha definito Angela Merkel lasciando il suo ultimo sforzo di mediazione a chi verrà dopo di lei nella guida morale di un Continente vecchio, spesso sfiduciato, in preda a virus ciclici che l’ondata pandemica mette solo a nudo.
Il “faro” che nelle capitali europee viene già riconosciuto è raggiungibile a un telefono con prefisso italiano, e per somma ironia solo nel Paese di Arlecchino e Pulcinella viene sterilmente “chiacchierato”, da taluni a stento tollerato, dai partiti il più delle volte osteggiato o strumentalizzato, e bistrattato come oggetto di mercanteggiamenti indegni della raffinatezza del personaggio.
Così Mario Draghi insiste e resiste, preoccupato di portare al termine il suo lavoro: rispettare tempi e modalità del Piano di ammodernamento dell’Italia con i finanziamenti concessi dall’Europa in virtù di una credibilità e affidabilità pressocché in toto legati alla sua leadership. Anche perché vedere Draghi profilare strade per il rilancio europeo e, poco più in là, parte della sua maggioranza votare a difesa dei “riottosi” polacchi e flirtare con Marine Le Pen, diciamolo senza pudori: non è spettacolo decente.
Nonostante ciò l’armata Brancaleone, persino peggiore di quella che amorevolmente il presidente Cossiga definiva “i miei straccioni di Vandea”, arriverà alla meta. Nudi, indecisi a tutto, concordi soltanto su un fatto: quello di essere in disaccordo. I punti di partenza dei prossimi cento giorni che potranno davvero cambiare l’Italia, in meglio o in peggio, sono tre o quattro.
Draghi pensa al suo Pnrr, con il contorno di vaccini e riduzione dei contagi, lo si è detto. Silvio Berlusconi, uno e trino più di Bacco, invece non molla i suoi compagni di strada, base “fissa” per quel sogno che pare stia diventando vera ossessione: provare a salire al Quirinale, e una volta tanto non per essere consultato. È il motivo profondo per il quale, come tutti gli uomini abituati a fare il pane con la farina che c’è, si tiene ben stretti i fedelissimi attendenti nel partito e la coppia Salvini-Meloni fuori: sa di star forzando la mano e l’esperienza del passato gli dice che solo partendo dalla strategia della “testuggine”, nucleo compatto e obbediente, può aspirare al risultato.
La posta in gioco è per lui diventata così essenziale, si direbbe esistenziale, da non esitare a far scoppiare la rivolta in Forza Italia e a bollare quasi come “traditori” (poco ci manca) chi pensa al futuro della politica, anche un po’ – com’è naturale che sia – a prescindere da lui. In questa cornice solipsistica, che costituirà fatalmente lo specchio del suo fallimento nella corsa al Colle, s’innesta l’attuale tentativo di inchiodare Draghi a Palazzo Chigi, e sminuire i generosi tentativi dei ministri Brunetta, Carfagna e Gelmini di guardare oltre.
A che cosa, l’ha detto lucidamente come sempre il ministro della Funzione Pubblica, ormai convinto che ci siano i tempi per una “nuova coalizione” che abbia in Draghi il suo ispiratore, e che possa contribuire a una “scomposizione e ricomposizione in senso europeo” della politica italiana, dunque mirando alle famiglie politiche europee stabili e riconosciute del socialismo, del liberalismo e del Partito popolare.
Una visione compiuta e completa, che non esita a proiettare il premier verso la Presidenza della Repubblica, perché magari i tempi sono maturi anche per un “semipresidenzialismo di fatto” che solo Draghi può, allo stesso tempo, interpretare senza eccessi e accompagnare nella sua “formalizzazione” in riforma.
Un orizzonte ampio che i miraggi quirinaleschi di Berlusconi non riusciranno a mortificare con due battute sulle “querelle per fatti personali” (lo strapotere geloso della coppia Tajani-Ronzulli, che in Mulè trova legittimo quoziente) e sul “dove pensano di andare questi qua, fuori da Forza Italia non ci sono strade percorribili”. Vero, ma solo in parte e per ora. Se le forze esistenti in Parlamento non consentono di farsi troppe illusioni (i raggruppamenti sparsi di Toti-Brugnaro, centristi di varia origine, Renzi e Calenda), quando si avvicineranno le elezioni molti cambiamenti di scena saranno inevitabili.
Senza contare che Brunetta ha già riunito, nei giorni scorsi, le truppe interne a Forza Italia che concordano sul fatto di “non poter farsi dettare la linea da chi perde”: circa 35 alla Camera e una ventina al Senato sarebbero i parlamentari pronti a sottrarsi al dominio dei sovranisti.
L’audio di Salvini rubato alla riunione leghista, inoltra, annulla decisamente le pubbliche professioni di unità all’interno del centrodestra: “C’è modo e modo di stare all’opposizione, si può concordare una quota comprensibile di rottura di coglioni, che però vada a minare il campo di Pd e Movimento 5 Stelle. E non fatta scientemente, come è accaduto negli ultimi mesi, per mettere in difficoltà la Lega e il centrodestra”, ha sibilato Salvini, bruciando le strategie finora messe in campo dalla Meloni per acquistare agibilità piena. Il leader leghista chiarisce fuori dai denti di non voler essere “il migliore di quelli che perdono”: il suo punto fisso e ossessivo sta nella vittoria alle Politiche e nell’approdo personale a Palazzo Chigi.
E stabilisce un timing di un anno e quattro mesi, “perché chi pensa di votare prima è un illuso” (tanto di benservito alla Meloni). L’irrigidimento delle posizioni di centrodestra passerà anche per un ferreo coordinamento all’interno del governo tra Salvini stesso, Berlusconi e i sei ministri: pretesa che consentirà a Salvini sia di tagliar fuori dai giochi la concorrente di Fratelli d’Italia, sia di tenere a bada il dissenso interno, tanto dei ministri leghisti che di quelli berlusconiani.
Ultimo, ma non per importanza, dei tasselli “fissi” che si vanno configurando nelle settimane che precederanno l’approvazione della manovra, riguarda proprio la “percorribilità” della strada del Centro, che nessuna delle forze esistenti può tollerare di far nascere, ma che pure sembra ormai ineluttabile.
L’indisponibilità dei Cinquestelle ad accettare alleanze elettorali con Renzi e Calenda, speculare a quella pregiudiziale espressa dai due nei loro confronti, mette il Pd in seria difficoltà. Il prossimo vero problema per Letta e compagni sarà la tenuta di popolarità dell’ex premier che tra un anno e quattro mesi potrebbe diventare un “Conte-chi”?
Un eventuale rientro di Bersani, con o senza Leu, non porta voti. E, senza un “campo largo” che arrivi a includere un centro fino a Calenda, il sogno della vittoria svanisce come per incanto. Anzi: per semplice evidenza aritmetica, sarà un brusco risveglio.
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