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Flash mob dei No green pass a Torino

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DOPO la prova non esaltante offerta dalla filiera Viminale-Prefettura-Questura negli scontri squadristi a Roma culminati con l’assalto alla Cgil, Mario Draghi non poteva permettersi cedevolezze nei riguardi degli impulsi ribellistici che hanno preso di mira il Green Pass. Il diritto delle minoranze di esprimersi e far valere le proprie ragioni è sacrosanto. Come, alla stessa stregua, è sacrosanto quello del governo e della maggioranza di varare provvedimenti ai quali è obbligatorio attenersi. Che gruppi organizzati possano tenere in scacco la sicurezza della Capitale e altri – assolutamente non assimilabili ai primi ma altrettanto perniciosi – possano bloccare l’attività di gangli importanti del Paese, non può essere consentito.

Palazzo Chigi non poteva che difendere la ministra dell’Interno, peraltro da tempo messa sotto accusa dal duo Salvini-Meloni; come pure, nonostante le richieste di vari partiti della sua coalizione, non poteva mostrare cedevolezze sull’obbligo del certificato verde, crinale decisivo per il definitivo successo del piano vaccinale.

Oggi ci sarà da superare la prova della manifestazione indetta dai sindacati, che è la meno preoccupante sotto il profilo di possibili disordini ma che è comunque destinata ad avere ripercussioni sui rapporti nella maggioranza, in particolare per quel che con concerne i ballottaggi. Anche per questo, mentre gli allarmismi venivano sparsi a piene mani anche dai media, il capo del governo ha riunito come se nulla fosse il Consiglio dei ministri per varare il decreto fiscale contenente nuovi rinvii per il pagamento delle cartelle e misure sull’ecobonus: a riprova che gli adempimenti in agenda vengono in ogni caso rispettati.

Tutto questo significa che SuperMario è ancora più forte di prima? La questione è mal posta e la risposta non può che essere contemporaneamente sì e no. In innumerevoli occasioni il presidente del Consiglio ha rivendicato la doppia missione del suo governo che è di mettere in sicurezza l’Italia sotto il profilo sanitario e implementare il Pnrr per agganciare le risorse messe a disposizione dalla Ue. Su entrambi i piani Draghi intende procedere con determinazione assoluta, ascoltando le forze politiche come doveroso ma poi agendo secondo le direttive che si è dato fin dall’inizio. “Il governo va avanti” è il suo mantra, e sarà così fin quando il Parlamento continuerà a dargli la fiducia e la maggioranza di larghe intese a rimanere unita. Il premier non media: punta a smussare gli angoli e trovare vie d’uscita il più condivise possibile laddove si creino discrepanze.

Ma poi agisce comunque senza farsi condizionare: tocca a chi non ci sta doversi prendere la responsabilità di far saltare l’equilibrio esistente, non il contrario. D’altro canto è inevitabile che governare logori e che le tensioni possono essere anestetizzate ma non sempre, non tutte e non soprattutto non gratuitamente. Ora c’è da procedere con il cronoprogramma e mettere nero su bianco la legge di Bilancio: significa che fino a dicembre non sono concepibili terremoti politici.

Ma con l’inizio del 2022 il quadro è presumibile possa mutare. Le fibrillazioni dentro e fra i partiti sono destinate ad aumentare e il metodo Draghi – ossia quello accennato: niente mediazioni ma unicamente colpi di freno e di acceleratore ove necessario, su un percorso prefissato – rischia di non reggere. Senza dimenticare che l’intero universo politico subirà un fortissimo stress test istituzionale per la nomina del successore di Sergio Mattarella. Anche qui l’unica possibilità è che venga individuato un percorso comune a cui lo stesso Draghi dia l’assenso. L’idea che possano esistere due maggioranze, una per governare e l’altra per eleggere il capo dello Stato, è di difficilissima attuazione: in realtà una vera e propria chimera.

Quindi per tentare di rispondere alla domanda si può dire che Mario Draghi è forte, anzi fortissimo: ma a scadenza, fino a Natale. Dopo si naviga a vista. Se non altro per questo, l’esecutivo mira a raggiungere e superare la soglia dell’80-85 per cento dei vaccinati, che se non è l’immunità di gregge gli assomiglia assai. E contemporaneamente avviare e radicare quanto più possibile le riforme concordate con Bruxelles (lui, a differenza di Enrico Michetti che se ne fa vanto, nei palazzi delle istituzioni dell’Unione c’è stato eccome, ottenendone prestigio e riconoscimenti fondamentali per sé stesso e per l’Italia), terreno sul quale si gioca l’affidabilità del Paese.

Però c’è di più, come le vicende degli ultimi giorni dimostrano. La rabbia sociale che cova e come un fiume in piena cerca li trovi sbocchi per emergere ed affermarsi, usa la pandemia come un ariete per sfondare il Palazzo e ricordasse a tutti che esiste e non intende piegarsi. In un sistema democratico, l’unico antidoto per espungere il virus del ribellismo che avvelena i pozzi della coesione sociale, sono gli interventi capaci di venire incontro alle esigenze della parte più debole ed esposta della popolazione, stroncando le radici della protesta fine a sé stessa o addirittura con tratti eversivi. Il che significa che l’esecutivo e chi lo sostiene non può limitarsi ad un operazione di semplice buon governo che già sarebbe un ottimo risultato. Deve scalare una montagna ben più alta e convincere quanti più italiani possibile che sta operando nel loro interesse. È un’operazione di pedagogia politica, oltre che di provvedimenti più o meno azzeccati. Sapendo che il tempo è poco, gli ostacoli tanti, le alternative inesistenti.


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