Silvio Berlusconi, Giorgia Meloni e Matteo Salvini
4 minuti per la letturaDUE coalizioni, centrodestra e centrosinistra, che appaiono due campi d’Agramante. Con i centristi (“Una gamba qua, una gamba là” intonerebbe De André) che furoreggiano in fatto di generali e scarseggiano, as usual, di truppe ma che, stai a vedere, finisce che diventano la sorpresa.
Ecco il panorama non proprio esaltante che si presenta di fronte a milioni di italiani con la scheda pronta nel cassetto. I cerotti, com’è noto, non nascondono le ferite: piuttosto le evidenziano. Così i comizi unitari del giorno dopo, o i selfie a sorriso sguainato non possono nascondere più di tanto il volto elettorale del centrodestra, deturpato com’è da divisioni, rancori, gelosie nonché veri e propri infortuni come quello capitato a Silvio Berlusconi che pure dopo decenni di attività in mezzo ai giornalisti dovrebbe conoscere le insidie del “glielo chiedo solo per capire” oppure delle telefonate immancabilmente registrate.
E dunque a una manciata di ore dall’apertura dei seggi amministrativi e del voto in alcune delle principali città italiane, l’attacco a tre punte Giorgia-Silvio-Matteo si presenta privo di un credibile schema di gioco e anzi quasi votato per propria scelta alla sconfitta. Se la campagna elettorale doveva servire a dimostrare agli elettori che si può riunire in funzione di una prossima vittoria alle politiche ciò che l’emergenza e l’arrivo di Draghi ha diviso sul piano della maggioranza parlamentare e di governo, diciamo che l’obiettivo resta ben lungi dall’essere raggiunto. Ciliegina sulla torta, dopo la vicenda Morisi, l’inchiesta di Fanpage sul buco nero (nomen omen) che inghiottirebbe i candidati di Fdi a Milano e nel frattempo ha costretto il capogruppo in Europa, Carlo Fidanza, ad autosospendersi dal partito.
Così “l’affetto politico” che Salvini sfodera verso la Meloni è patinato come quello dei fotoromanzi ma altrettanto effimero. Si capirà meglio dopo i risultati, però la sensazione che l’accordo di centrodestra sia poco più di un cartello elettorale che latita di coesione, cresce e si impone. Come sia possibile che tra pochi mesi un simile aggregato possa condurre unitariamente la campagna per il Quirinale e poi maneggiare con efficacia il fuoco della campagna elettorale presentandosi come contenitore in grado di allestire un governo, è difficile dire. Ancor più complicato è immaginare che da questa metà campo possa emergere un leader in grado di amalgamare lo schieramento.
La formula: “Diventa candidato premier chi raccoglie un voto in più” appare logora prima ancora di essere messa alla prova. Del restato è già andata a monte nel 2018: Salvini prese più voti di tutti e poi fece il governo con Di Maio. Non molto meglio vanno le cose nel fronte opposto. L’unità di marcia, anteprima di un’unione strategica, perseguita dal Pd nei riguardi dei Cinquestelle è rimasta al palo e anzi in taluni casi, vedi Torino, fortissimamente contestata. Laddove invece si è presentata in forme condivise, tipo Napoli, ha prodotto una situazione paradossale per cui il vero incubo del Nazareno è la riproposizione della guerra civile a sinistra nel caso in cui Antonio Bassolino arrivi al ballottaggio. Del M5S non v’è traccia.
Né vale la regola opposta. Perché nelle piazze, tipo Roma, dove l’accordo è invece stato rinnegato fin dal primo momento e Pd e Cinquestelle formalmente se le danno di santa ragione, l’incubo napoletano si riproporne col segno rovesciato e l’insidia non viene da sinistra ma dal centro, dove Carlo Calenda può calamitare i voti della destra poco convinta dai dagherrotipi della città imperiale del professor Michetti. Dunque aggregazioni di cartapesta che si gonfiano e sgonfiano al soffiare di qualsiasi vento, sulle quali si staglia la figura e l’opera di SuperMario Draghi che pure è costretto a beccheggiare a causa di un moto ondoso che minaccia di crescere a dismisura all’avvicinarsi di snodi decisivi come il voto per il Colle e il 2022 anno squisitamente pre-elettorale, dove sono pronti effetti speciali inquietanti sul fronte della stabilità dell’esecutivo, qualunque esso sia e chiunque lo guidi.
È in questo clima che andrebbero recuperaste lezioni politiche e di vita come quella offerta da Emanuele Macaluso la cui figura è stata ieri celebrata sotto l’egida del Senato nel Chiostro di Santa Maria sopra Minerva. Sembra fantascienza parlarne e un assoluto anacronismo riproporla: eppur la lezione dell’ex senatore Pci, esponente di spicco dei miglioristi, andrebbe propinata con vigore al parterre di leader, veri o presunti, che si agitano nelle cronache politiche. Lo ha detto bene la presidente del Senato, Maria Elisabetta Casellati, quando ha ricordato “il respiro della prospettiva” che animava Macaluso e la convinzione che una democrazia senza partiti è avviata al collasso. Di qui l’esercizio della politica vissuta “come arte”.
C’è in giro qualcosa di simile? E meglio ancora ha tratteggiato la vicenda personale e politica dell’esponente riformista l’attuale giudice costituzionale Giuliano Amato. Col rigore e la chiarezza che lo contraddistingue, Amato ha spiegato che l’eredità di Macaluso sta nell’aver esaltato “la forza irrinunciabile del dialogo” che poi è lo spirito di ogni democrazia, dove “nessuno detiene verità assolute” ma solo parziali e dove la demonizzazione dell’avversario avvelena i pozzi della coesione sociale. Sono direttrici che raccontano la forza e la necessità della politica. La cui mancanza o svalutazione spiega le contorsionismi e le debolezze di adesso.
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