Il presidente del Consiglio Mario Draghi col presidente della Repubblica Sergio Mattarella
5 minuti per la letturaDICONO che il “Semestre bianco” sia norma desueta, che non serva più. Può darsi (non ne saremmo del tutto convinti). Di sicuro, però, servirebbe un “semestre bianco” per le chiacchiere sull’elezione del Presidente della Repubblica: l’impedimento a parlarne o a parlarne senza basarsi su dati di fatto. O ancora: a parlarne senza conoscere alcuni principi di base.
La “supplenza” che il premier Mario Draghi sta offendo ai partiti, lo “scudo draghiano” alle loro inefficienze e incapacità, l’alibi garantito alla loro irresponsabilità, non possono durare all’infinito, checché ne pensino alcuni leader per strumentalizzare una situazione eccezionale e piegarla alle convenienze (nel caso in specie, scongiurare la temuta vittoria del centrodestra).
A questo presupposto, ne andrebbe aggiunto un altro: ci sono uomini buoni per tutte le stagioni e uomini che restano se stessi indipendentemente dalla stagione, dalla funzione, dall’organismo che guidano. Questo è il caso di Draghi, per come interpreta la presidenza del Consiglio: quello che in sette mesi è apparso a molti, noi compresi, un piccolo grande miracolo di autorevolezza e credibilità, di concretezza in una situazione ardua, il cosiddetto “metodo Draghi”, per intenderci, non è legato a provvedimenti eclatanti o alla scoperta di una bacchetta magica nelle mani dell’ex presidente Bce. No: la scoperta sta nella “normalità” del suo procedere, in una lista delle priorità che detta l’agenda ed è sempre senza sbavature, in un lavoro costante e certosino che riporta l’Italia in carreggiata persino sul palcoscenico internazionale, dove da decenni figuravamo da comparse o, tutt’al più, relegati a “caratteristi”.
Ma va pure detto che le doti di equilibrio del premier saranno una parentesi difficilmente replicabile: una volta tanto non solo per la qualità degli attori, ma anche perché solo Draghi o uno come lui poteva interpretare il ruolo con tanta giudiziosa equidistanza. In parole povere, semplificando: non tutti se ne sono accorti, ma Draghi sta facendo il presidente del Consiglio come se fosse il presidente della Repubblica. Non nel senso di un’invasione di ruoli altrui, bensì in quello di una stessa avveduta preoccupazione nel non immischiarsi nelle beghe tra partiti. Diremmo quindi da “arbitro” speciale: ovvero con in più una facoltà decisionale da potere esecutivo, giustamente preclusa a chi svolge la funzione di arbitro dal Quirinale.
Draghi segue la partita in campo, Mattarella al Var. L’abilità del premier sta nel fare scelte difficilmente criticabili, anche quando sono riferite a un minimo comune denominatore e non al massimo di ciò che si potrebbe fare. Il motivo è “strutturale”: la funzione esecutiva, in condizioni di normalità, viene determinata da un voto popolare e può, in virtù dell’investitura, avere anche il coraggio di decisioni sulle quali discenderà quel tipo di responsabilità politica “riconoscibile”, propria di un sistema democratico compiuto. Per questo, baloccarsi sul futuro ospite del Colle come se fosse un derby Roma-Lazio, Mourinho-Sarri, Draghi-Mattarella, è esercizio sballato e sempre riconducibile a opache manovre di parte. Ieri, in una giornata politica segnata dalla campagna elettorale per le Comunali, dai soliti scambi di “affettuosità” tra leader, e da un pigro principio di attività per la ripresa, mentre è sempre l’Afghanistan a dominare la scena, questo appariva quanto mai chiaro.
Anzitutto le parole pronunciate dal presidente Mattarella nella sua visita a Ventotene: mai o quasi mai, finora, il Capo dello Stato era stato così netto nella scelta di campo. La sottolineatura a chi fa demagogia persino sui rifugiati afghani, oltre che condivisibile, si può anche considerare come una scelta di campo e/o la rinuncia ad allargare quel campo a forze sovraniste o para-sovraniste. Attaccare atteggiamenti riconducibili al leghista Salvini o alla Meloni non allarga certo il consenso per una sua rielezione al Quirinale: segno che il Presidente è irremovibile e considera sbagliata non tanto e solo una seconda “prorogatio” al Colle, quanto il semplice perdurare della sospensione politica nella funzione esecutiva.
Sull’altro versante, quello di Draghi, le cronache rimandano sussurri e persino una nuova disponibilità del premier a ricevere “persino” politici di media e bassa levatura: non abbiamo alcun elemento (ammesso che fosse possibile, e lecito) per verificare gli ingressi a Palazzo Chigi e le telefonate del premier: ma pur ammettendo che fosse vero, non si tratta certo di un “lavorio” per affermare una sua candidatura al Quirinale, e chi lo afferma sa di fare illazioni gratuite o giornalismo di portineria (che spesso confina con i servizi, quindi ci andremmo cauti).
Molto più interessante è verificare come, nella difesa implicita della linea sui migranti tenuta dal governo, Mattarella, Draghi e Lamorgese siano granitici. Ed è sullo stesso fronte che, in un’intervista al “Corsera”, ha voluto ieri iscriversi anche l’ex premier Giuseppe Conte. Sia giudicando “fallimentare” l’opera di Salvini al Viminale (con qualche presa di distanze colpevolmente postuma, in verità), che difendendo la Lamorgese a spada tratta e infine negando, in maniera assai decisa, di aver mai perorato la causa di una rielezione di Mattarella (“Mai detto”). Come appariva chiaro già prima dell’estate, le uniche speranze per Conte di non veder svaporare il ricordo della sua esperienza a Palazzo Chigi starebbe nell’anticipo di elezioni a primavera, cioè dopo il passaggio di Draghi al Quirinale. Valutazione non sfuggita al Nazareno, che con Matteo Ricci si lanciava in una spericolata reprimenda: “Diffido da chi sta facendo la corte a Draghi per farlo salire al Quirinale, con l’unico obiettivo di andare alle elezioni anticipate”. Più tardi era Letta a ricalibrare la posizione verso un appoggio incondizionato al governo: “Sosteniamo Draghi in tutto quello che sta facendo”.
Ma se pure il Pd vede le elezioni come la sua bestia nera, l’interesse di Conte, Salvini e Meloni coincide e coinciderà, anche se non è neppure detto che un’elezione di Draghi porti necessariamente alle urne. Parlarne a vanvera resta il tentativo di boicottare Draghi e il voto: cinque mesi di sordina sull’argomento non farebbero male, anzi.
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