Mario Draghi nella sede della Protezione civile
5 minuti per la letturaIN NOTTATA mentre scorre l’appello nominale per il voto di fiducia sulla riforma della giustizia, si fa strada la consapevolezza che ormai è fatta. Se ci doveva essere la crisi; se si poteva immaginare di far scattare la tagliola per Draghi e i draghiani ovunque annidati; se c’era l’occasione per fargliela vedere a Renzi e a tutti quelli che avevano esultato per l’addio di Conte a palazzo Chigi; beh il momento era questo. Che però è passato e, diciamolo, è davvero complicato che si ripresenti.
È complicato che i pianeti possano riallinearsi per esercitare l’influsso decisivo e far affondare il governo della larghe e strane intese. Se siluro per affondare la portaerei-governo doveva partire, il passaggio in Cdm e poi in aula dell’addio al fine pena mai era la possibilità giusta. Non ha funzionato. Per il semplice motivo che la crisi non ci può essere.
Che semestre bianco, sbiancato, bianchissimo o praticamente candido che si voglia, la possibilità di buttar giù SuperMario non c’è, il sogno di chi cova vendetta non si avvererà né adesso né nel periodo in cui il capo dello Stato, Costituzione alla mano, non può sciogliere il Parlamento. Intanto perché di andare a casa i 945 deputati e senatori non hanno nessuna voglia qualunque sia il governo in carica, a cominciare dai 345 che sono nient’altro che revenants, fantasmi prodotti dal taglio dei seggi voluto dal M5S e accettato dal Pd. E poi perché il polverone di chiacchiere sollevato dai partiti non può nascondere la semplice verità che se cade Draghi l’Italia finisce in braghe di tela. E piantare la propria bandiera su un cumulo di macerie è roba che, invece di attrarre, spaventa l’elettorato.
Senza contare un elemento strutturale: che il premier è assolutamente determinato a eseguire fino in fondo il compito che si è dato. E dunque di fronte alle acrobazie di questo o quel leader, sempre replicherà che l’imperativo è rispettare il cronoprogramma riformista, senza deflettere per nessuna ragione.
Stando così le cose, la domanda dovrebbe essere perché, se la fase politica è quella e agitandosi si fa la fine dei criceti che corrono in tondo su una rotella, partiti e movimenti continuino a fare la faccia feroce, menando fendenti come faceva Don Chisciotte e con gli stessi risultati. La risposta è diversificata ma non si va lontano dal vero se si ricordano le imminenti elezioni amministrative e la necessità di piantare ciascuno le proprie bandierine – il Pd i diritti e la legge Zan; il M5S a trazione “contiana” il reddito di cittadinanza; Renzi idem ma dal fronte opposto e infine l’evergreen salviniano, ancora una volta lanciato dal Papeete, dell’immigrazione – per guadagnare qualche municipio in più. O l’obbligo di distinguersi individuando un nemico o agitando il proprio vessillo identitario: due meccanismi che appaiono invincibili nel confronto politico italiano. Seppur fuorviante: basta vedere le Grosse Koalition tedesche per capire che abbracciandosi nei momenti di emergenza, forze politiche anche diametralmente distanti non perdono i loro connotati ma al contrario li esaltano. Al dunque i partiti non possono – e si può aggiungere: mai e poi mai debbono – destrutturarsi nell’indistinto dell’appoggio straordinario ad un governo straordinario. Debbono, al contrario, fare la loro parte. Basta capire quale.
È evidente, infatti, che sulla riforma della giustizia si è giocata una partita su più piani: non solo quello politico ma anche quello giudiziario e dei rapporti tra poteri dello Stato. Con la ciliegina del ruolo di cattivi e fatui maestri con l’opinione perennemente sguainata e sempre fortemente interessati alla pars destruens assai più che a quella costruens. Ma la partita Cartabia era anche un segmento non trascurabile del confronto più generale che riguarda il Recovery e il Pnrr. Nonché concernere qualcosa di fondamentale come il futuro del Paese. Così forse ci avviciniamo alla risposta. I partiti non possono non rappresentare e valorizzare le istanze del proprio elettorato. Ma neppure possono sottrarsi al dovere di indicare priorità e obiettivi.
Se la mission del governo Draghi è quella di far arrivare i 200 miliardi del Next generation Ue al fine di rimettere in sesto il Paese, una volta riconosciuta l’obbligatorietà e soprattutto l’utilità di quel traguardo, l’agenda partitica non può discostarsene a cuor leggero. Come pure i partiti non possono inscenare una sorta di rimpiattino per cui avendo aderito alla maggioranza pro-Draghi poi se ne servono come uno schermo per occuparsi d’altro.
Veniamo al punto. Entro agosto il governo dovrà mettere a punto la riforma del fisco, quella della concorrenza e impostare la manovra di bilancio da presentare a settembre. Sono interventi di grandissimo spessore che riguardano tutti gli italiani, non solo i sostenitori di questa e quella forza politica. Perciò non sarebbe così male se il confronto – e se necessario anche lo scontro, perché no – avvenisse su questi terreni, si sviluppasse in base a proposte per centrare gli obiettivi avviando una concorrenzialità virtuosa.
Come abbassare le tasse per nulla rinunciando alla lotta all’evasione; come attrezzare l’Italia ad essere attrattiva nei riguardi degli investimenti privati sapendo che la mano pubblica ne intermedia circa la metà del totale e dunque una PA efficiente e preparata è il volano per mettere a frutto gli interventi di spesa e infine, ma solo per brevità, impegnarsi per costruire più opportunità possibile per i giovani senza tralasciare neppure per un minuto il contrasto al Covid: ecco, se i partiti si azzuffassero su questi temi darebbero un contributo importante a rendere l’Italia una land of opportunity.
La demonizzazione dell’altro porta voti, è il mantra perennemente ripetuto nelle terre dei guelfi e dei ghibellini. Ma provare per una volta a recitare un copione diverso, proprio no?
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