Marta Cartabia e Mario Draghi
5 minuti per la letturaE’ sulle trincee della giustizia, più che su ogni altro pianoro di battaglia, che si gioca il futuro del governo. Guerra mondiale combattuta con armi “non convenzionali” e che vede coinvolte tutte le forze, ognuna contro tutte le altre, per sopravvivenza o per supremazia, con tattiche dilatorie o suicide. Siamo sull’orlo di una ristrutturazione complessiva del quadro e si vede: dalle turbolenze che potrebbero accompagnare il prossimo cammino di Mario Draghi non dipendono solo i soldi in arrivo dall’Europa, e la credibilità del Paese appena riconquistata dal premier, ma anche il candidato che salirà al Quirinale, il sistema delle alleanze, la durata della legislatura.
La giustizia è diventata paradigma della crisi che sconquassa ogni partito, ciascuno messo alle corde da due fatti epocali: la pandemia e il ricorso al “peso da novanta” dell’ex presidente Bce per uscirne senza disastri. “Commissariamento mascherato”, è stato definito il governo Draghi. Di sicuro lo è per questi partiti dediti alle piccole beghe, interne alle alleanze e verso l’alleato più contiguo, volte a raggranellare manciate di voti – leggi qualche “zero virgola” nei sondaggi.
Prova ne sia l’aggiornamento sull’effimero primato: la Lega, stabile al 20,4, è tornata primo partito, mentre Fratelli d’Italia paga l’incertezza meloniana sulle manifestazioni “green-pass”. Il vortice più violento non si crea a destra, anche se Forza Italia è sempre più attore “caratterista”, come ieri dimostrato dalla posizione sulla riforma Cartabia, con sterile riproposizione dell’ampliamento del perimetro all’abuso d’ufficio, bocciata da Fico e poi in commissione 26 a 19.
Tattica un po’ suicida che ha destato più d’un sospetto sulla volontà di chiudere nei tempi proposti da Draghi, e dunque per fine settimana o al massimo la prossima. Determinata dalla voglia di controbilanciare bizze grilline o di compattare il centrodestra su una “radicalità” forzista, in effetti la sortita ha avuto esiti non del tutto soddisfacenti: l’uscita della deputata Giusi Bartolozzi dal gruppo forzista, per protesta, lo scambio di accuse con gli altri alleati (“giustizialisti!” contro “volevate affossare la riforma!”), il voto unitario di M5S e Pd; speculare richiesta di M5S di ampliare la trattativa al reato di corruzione.
Mulinelli ancor più ciclonici provocano invece i sicuri “perdenti” delle prossime prove elettorali, ovvero il “Movimento” ormai in disfacimento, cui il figlio del fondatore, Davide Casaleggio, in un’intervista consiglia addirittura di cambiar nome: del vecchio sogno paterno, dice, “si è perso di vista tutto, si è passati da una struttura iperdemocratica a una iperverticistica”.
Un mesto sipario che forse prelude alla formazione nuova che a settembre dovrebbe fondare il sub-comandante Di Battista (sempre che torni dai suoi viaggi per il Sud del mondo). Quanta presa facciano le parole di Casaleggio jr sul gruppo di facinorosi che ieri ha ascoltato e contestato aspramente il nuovo leader non incoronato, Giuseppe Conte, non è dato saperlo (anche perché molti sono ancora indebitati con lui per la piattaforma Rousseau).
Ma di certo l’incontro dell’ex premier con i gruppi non è andato come si sperava, al punto che oggi Conte tornerà alla carica. Per rianimare la truppa, divisa tra i rassegnati del mugugno e i “puri e duri”, l’ex premier ha avuto bisogno di ritratteggiare quello che intende per “rifondazione”, puntando sulla necessità di una “leadership chiara e forte per interloquire con il governo e ottenere risultati”.
All’esterno, ancora un messaggio a Draghi: una lamentosa richiesta di aiuto, di non lasciarlo con il cerino in mano e il cappello sulle pudenda. “E’ chiaro che una prospettiva di fiducia alla riforma senza alcune modifiche sarebbe per noi difficile, abbiamo posto delle osservazioni condivise da addetti ai lavori, il testo così com’è stato presentato pone al Movimento dei problemi gravissimi”, ha fatto sapere a proposito delle ultime telefonate con il premier.
Con i suoi, il senso della strettoia lungo un precipizio: “Ci sono margini di manovra strettissimi – ha spiegato -. Ma io li sto sfruttando tutti e ce la sto mettendo tutta…”. Sembra più un “io speriamo che me la cavo” che il “ricatto inaccettabile” sostenuto dai renziani, e dalla Bellanova con particolare foga. Le modifiche al maxi-emendamento Cartabia dovrebbero essere già acquisite, quelle di sottrarre alla prescrizione i processi per mafia e terrorismo.
Ma i post-grillini vogliono di più, giocano con il fuoco, alcuni solo per forza della disperazione. Costringendo la ministra guardasigilli Cartabia a tornare precipitosamente a Palazzo Chigi per informare il premier dei tira-e-molla parlamentari.
Fin dove possono arrivare gli “aggiustamenti tecnici” senza provocare sollevazioni contrapposte? Forza Italia gioca allo sfascio per far slittare tutto a settembre o cerca solo di aiutare i 5stelle ad accontentarsi, fingendo pure di aver vinto? Quel che si sa è che Draghi sta arrivando al livello di saturazione: ha messo sulla sua scrivania la pistola fumante della fiducia e fa capire di non avere nessuna remora a usarla, qualora si andasse troppo per le lunghe.
Una sponda salda pare quella di Salvini, che si limita a fare propaganda sui referendum radicali sulla giustizia, un’altra quella di Letta jr, assai preoccupato che la riforma finisca nella palude parlamentare, ma soprattutto che Draghi possa stancarsi e porre la fiducia, così andrebbe alla conta in Aula. Esito che, allo stato delle cose, certificherebbe la spaccatura del M5S riconsegnando ai dem un alleato in pieno caos e per niente affidabili.
Ecco così il segretario tornare a parlare di “campo largo” e unitario del centrosinistra. Porte aperte a tutti, o quasi. Non viene citato Renzi, cui è stato sbattuto in faccia il nyet all’accordo per le suppletive senesi, ma è chiaro che le relazioni “diplomatiche” tra il pisano e il fiorentino ricordano molto quelle intercorse tra i due Comuni. Era un millennio fa, più o meno.
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