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Il presidente del Consiglio, Mario Draghi

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PROVIAMO a salire su un aliante e a scattare dall’alto qualche foto del panorama politico italiano. Da lassù, potremo scorgere schieramenti in rivolgimento, leader alle prese col cambio di fase e di strategie, percorsi politici che si intrecciano fino ad aggrovigliarsi per poi all’improvviso scindersi e marciare in direzione opposte. E al centro una sola figura che fa da punto di riferimento: Mario Draghi. Già. Forse perché all’interno di qual panorama ci stiamo un po’ tutti, chi in una posizione chi in un’altra, e perciò fatichiamo a sussumere l’intero disegno. Ma la condizione è oggettiva.

Da quando SuperMario è arrivato a palazzo Chigi l’intero fronte degli schieramenti politici ha cominciato a sfaldarsi e a cercare di ricomporsi con nuovi equilibri, che in gran parte tuttavia restano da costruire. Qualche esempio. Il centrodestra si è diviso tra chi sta nella maggioranza di unità nazionale e chi no. Fatto tutt’altro che trascurabile, destinato a pesare sulla stabilità dell’alleanza: guardare per credere allo scomposto Risiko delle candidature amministrative. Il Centrosinistra ha mutato fisionomia e ridisegnato i ruoli. Il Pd ha cambiato segretario; il M5S si è infilato in una crisi che minaccia di essere distruttrice e ridurre a brandelli quella che appena quattro anni fa era il bastione della governabilità possibile, la prima forza politica nel Paese e in Parlamento. Le forse centriste sono in continuo rivolgimento senza riuscire ancora a trovare un assetto stabile. Insomma in pochi mesi è cambiato tutto. E siamo solo all’inizio.

Tutto questo nonostante ci sia chi “rimprovera” al presidente del Consiglio di essere solo uno stabilizzatore che ottimizza l’esistente ma che non essendo una figura politica non può avere la funzione e la leadership di innovatore. Usando l’ago, rattoppa in maniera eccelsa ma non sarà il sarto che cuce il  guardaroba economico-politico-sociale dell’Italia che verrà.

È una considerazione che pecca di semplicismo. Come di tatticismo pecca invece chi intona peana alla presenza e all’azione dell’ex presidente della Bce come fa Matteo Renzi. Il quale si appunta sul petto la medaglia di essere stato il protagonista della cacciata di Giuseppe Conte e dell’arrivo di Draghi e della sua squadra di ministri: non c’è partita,  è il suo ragionamento, a parte quei due volete mettere il salto di qualità nel passaggio da Bonafede a Cartabia? Sono due modi, entrambi legittimi ma ambedue strumentali, di decrittare la fotografia dell’aliante. Due modi che lasciano sfocato lo scenario perché guardano agli effetti immediati trascurando la visione di sistema.

Se infatti Sergio Mattarella ha chiamato Draghi al  Colle per affidargli l’incarico di guidare il governo è perché l’Italia si stava avvitando in una crisi che non era solo politica, economica, sociale o sanitaria. Era l’insieme di tutte quattro: dunque una crisi di sistema. E sistemica doveva essere la soluzione. Così è stato, così è. Svolgendo il suo compito con il massimo d’impegno e con la capacità e competenza che gli vengono universalmente riconosciute (i Civil servant fanno così, no?),  il premier ha di fatto impugnato il bisturi ed inciso nella carne viva dei problemi del Paese. Ha ridato impulso al ruolo dell’Italia in Europa, ha presentato un piano per sfruttare il Recovery che è stato portato ad esempio dalla presidente della Commissione europea, Ursula von der Lyen. Sta costruendo le condizioni per riavviare crescita e sviluppo, bloccati da almeno vent’anni. Ha messo in piedi, scegliendo di affidarlo al generale Figliuolo, un meccanismo vaccinale che ha permesso di colorare di bianco tutte le Regioni.

L’insieme di queste condizioni ha obbligato e continua ad obbligare le forze politiche a fare i conti con una dimensione cui non erano abituate: la risoluzione dei problemi al posto dell’eterno wrestling ideologico esercitato a favore di camera nei talk show; delle battute polemiche intinte nell’ arsenico (metaforico) sui social; della propaganda mediatica spacciata come comunicazione rivolta ai cittadini per esprimere progetti e proposte.

Il problema era di sistema e di sistema resta. Perché ad un certo punto il riassetto politico-istituzionale del Paese con forme stabili dovrà prendere il posto dell’eccezionalità e dei disequilibri prodotti dalla pandemia. Ad un certo punto il Parlamento dovrà riprendere la sua funzione di stanza di compensazione degli interessi e delle idealità dell’intera comunità nazionale; i partiti dovranno riprendere lo scettro della governabilità magari dopo il lavacro elettorale che definirà i rapporti di forza; la classe dirigente complessivamente intesa dovrà prendere in mano le redini della rimessa in sicurezza dei conti pubblici e dell’ ingranaggio occupazionale.

Draghi potrà scegliere di fare come Cincinnato oppure mettere radici nel Palazzo del potere. Se le condizioni lo consentiranno continuerà a stare a palazzo Chigi o magari salirà al Colle. Resterà in Italia oppure emigrerà verso nuovi lidi continentali con nuove responsabilità. Sapendo comunque di aver fatto il suo dovere. In ogni caso non potrà continuare all’infinito a fare come Atlante, il Titano che regge tutto sulle sue spalle.

Non potrà più essere,  cioè, l’alibi di chi furbescamente gli lascia fare il lavoro sporco e poi punta a prendersi i frutti del buongoverno. Il sistema prima o poi dovrà ritrovare il suo equilibrio, senza invocare salvifici demiurghi. Bisognerà farsi trovare pronti all’appuntamento.


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