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SUPERMario Draghi non ne vuole sentir parlare: col Recovery ed il Pnrr non c’entra nulla. I partiti, tutti, nicchiano facendosi scudo del fatto che “ai cittadini non interessa” unito all’immancabile “i problemi sono altri”. Tuttavia più si avvicinano le elezioni politiche (e a maggior ragione se la legislatura terminasse anticipatamente) più il fiume carsico della riforma elettorale riemerge. Allo stato, succede per lo più con accenni strumentali o furbeschi, nel senso di indicazioni lanciate più che altro per sondare il terreno e vedere come reagiscono le forze politiche: vedi i riferimenti al Mattarellum che Salvini e Letta periodicamente si rimbalzano.

Tuttavia il nodo esiste e arriverà il momento in cui dovrà essere sciolto. Come pure esistono i contatti, condotti necessariamente nell’ombra, per cercare di trovare un punto di accordo che eviti  o meccanismi penalizzanti oppure, eventualità sempre forte quando manca una regia, che si determini un nulla di fatto che porterebbe a votare con la legge attuale, il cosiddetto Rosatellum a suo tempo predisposto dall’attuale presidente di Italia Viva, Ettore Rosato.

Ma andiamo con ordine. Ai tempi del Conte 2, Pd e M5S avevano lavorato ad una riforma in senso proporzionale: al voto ognuno per proprio conto e poi le alleanze per il governo si fanno in Parlamento ad urne chiuse. Ipotesi rilanciata dallo stesso ex presidente del Consiglio nella caccia ai “responsabili” che avrebbero dovuto  riconsegnarli la fiducia e consentirgli di andare avanti. Com’è finita lo sanno tutti, e adesso a palazzo Chigi al posto di Giuseppi c’è Mario Draghi. In realtà quello schema poteva anche reggere nell’eventualità che Lega e FdI rifiutassero di sostenere Draghi rimanendo su posizioni sovraniste e anti-Ue, immaginando che la sola Forza Italia si sganciasse. Insomma l’autostrada Ursula che tanto piaceva ad Enrico Letta.

Non è andata così, Salvini ha strambato accettando la linea Mattarella e in tal modo mandando in soffitta un sistema elettorale che non prevedesse alleanze prima del voto. Non solo. Come conseguenza del sostegno a Draghi, il centrodestra di governo con ovviamente in testa il leader leghista, considera non negoziabili meccanismi che non prevedano alleanze preventive. E poiché la Lega è parte integrante e decisiva della maggioranza, chi immagina di fare una riforma senza o perfino contro il Carroccio, imbocca un vicolo cieco.

Risultato: chi afferma (o addirittura sotto sotto lavora) per una legge elettorale proporzionale senza vincoli di alleanza delle due l’una: o pesta l’acqua nel mortaio, oppure in realtà manovra perché rimanga la legge elettorale attuale. Con quali fini proveremo a sceverare più sotto.

Resta però che anche volendosi indirizzare su altri percorsi e meccanismi, ci sono una paio di problemi molto seri che è fondamentale risolvere. Primo. Accettando le alleanze prima del voto, è meglio avere un premio di coalizione per arrivare, ad esempio, al 55 per cento dei seggi assegnati a chi vince con i parlamentari “apparentati” in uno schieramento, oppure lasciare che i partiti si spartiscono a tavolino, con trattative complicate e in taluni casi a rischio opacità, i candidati in collegi uninominali? Sembrerebbe logico imboccare la prima strada, con il premio di coalizione come avviene per i Comuni. Secondo. Eliminando i collegi uninominali di coalizione, che in pratica con elezioni a turno unico sono un’altra faccia della spartizione (lottizzazione?) dei posti in Parlamento, bisogna rassegnarsi alle liste bloccate che impediscono agli elettori di scegliersi i loro rappresentanti e sono una delle principali cause della disaffezione elettorale, oppure ripiegare sulle preferenze, oggi esaltate ma a suo tempo cancellate con un referendum il 9 giugno del 1991: oltre il 95 per cento degli elettori disse no alle preferenze multiple lasciandone in vita una sola.

La successiva legge elettorale introdusse il maggioritario e di preferenze non se ne parlò più. Questo perché le preferenze inducevano ad un mercato dei voti anche qui con opacità non trascurabili. Bene: e allora? Qualcuno avanza l’idea di riprendere la vecchia legge elettorale del Senato o quella dell’ex vecchie Province. Si vedrà.

Il punto politico tuttavia è evidente. L’arrivo di Salvini nella larga maggioranza ha modificato in modo non derogabile lo schema valido fino all’addio di Conte. Adesso la realtà è semplice: “Chi mette in alternativa al  Rosatellum una legge elettorale che non prevede alleanze preventive, di fatto lavora perché il Rosatellum rimanga e si vada a votare con la legge attuale”, taglia corto il costituzionalista del Pd, Stefano Ceccanti, uno dei più lucidi esperti del settore.

Ogni riferimento all’intervista del Corriere della Sera di ieri a Goffredo Bettini è voluta. Complicato essere in disaccordo. Ma perché Bettini lo fa? Senza scomodare Andreotti e i suoi pensieri maligni, in una nemesi straordinaria ma non sconosciuta per le riforme elettorali – vedi “porcata” di Calderoli – votare con la legge attuale porterebbe alla sparizione di Renzi, lontano dal raggiungimento del quorum necessario. Una vendetta postuma con annessa eterogenesi dei fini.  

Rimane il nodo di fondo che su queste colonne avevamo già evidenziato e che con la sua autorevolezza anche il professor Alessandro Campi rilancia. Ossia che allo stato nessun partito supera il 20 per cento ed ha perciò spalle troppo gracili per reggere il peso della governabilità e del riassetto del sistema. Con un corollario: chi pensa di mettere riparo attraverso l’ingegneria della riforma elettorale coltiva pericolose illusioni. 


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