Il ministro Renato Brunetta
4 minuti per la letturaLa pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della normativa che rivede il meccanismo di assunzioni nella pubblica amministrazione va salutato come una significativa rivoluzione.
Merito del ministro Brunetta che si è molto impegnato in questa battaglia, ma merito altrettanto del cambio di clima introdotto dal governo Draghi che ha rilanciato la pubblica amministrazione come perno essenziale per il successo del PNRR.
Il problema della scarsa adeguatezza del nostro sistema di pubblica amministrazione nel rispondere alle sfide della grande transizione in cui siamo immersi è noto da tempo. Per la verità si porta dietro tutta una tradizione di svalutazione della burocrazia, dal famoso “monsù Travet” rappresentato per la prima volta nel 1863 (!) ad una lunga sequela di maschere letterarie e cinematografiche.
Eppure siamo anche stati prigionieri del mito di produrre pure da noi qualcosa di simile all’ENA francese: si ricorda una scuola di alta formazione per la pubblica amministrazione, di cui non sapremmo dire la situazione attuale (ammesso che funzioni ancora) e tanti discorsi e lamentazioni sulla necessità di mettere mano all’efficientamento delle strutture pubbliche senza le quali uno stato non può funzionare.
Si tratta sempre di una tematica molto discussa negli studi sul funzionamento dello stato moderno: quasi tutti sanno il rilievo che Max Weber ha riservato alla rivoluzione burocratica per caratterizzarlo, quella burocrazia che secondo un altro classico della storia delle istituzioni, il tedesco Otto Hintze, andava dal Cancelliere dell’Impero fino all’ultimo portalettere.
Da tempo si discuteva della opportunità di superare l’impasse di strutture che non erano giudicate in grado di fornire prestazioni all’altezza delle sfide che si dovevano affrontare nei tempi nuovi ricorrendo a quello che pudicamente si definisce come “outsourcing”, cioè acquisendo sul mercato le competenze che mancavano.
In genere senza che questo portasse a riduzioni nei ruoli, ma solo duplicando mansioni, con gioia spesso dei committenti politici che potevano di volta in volta acquisire in questo modo i servigi di personale in sintonia, se non brutalmente “amico” (con tutti i rischi di corruzione che ciò poteva comportare).
Naturalmente il problema è molto complesso e sarebbe ingenuo pensare che lo risolveranno le 6.303 unità che si andranno a reclutare con procedure concorsuali meno vincolate alle ossessioni formalistiche dei vecchi mandarinati della funzione pubblica (a cominciare da quelli sindacali: non val la pena di tacere su questo fenomeno).
Ci sono molti aspetti delicati da affrontare per rimettere la pubblica amministrazione in grado di essere quel volano indispensabile perché lo stato semplicemente “funzioni” e possibilmente funzioni molto bene. Tuttavia sarebbe deleterio se cadessimo nel solito benaltrismo: non basta certo rinforzare la consistenza della “truppa” o anche degli ufficiali di linea se poi ci mancano i “generali”.
L’osservazione è fondata, ma lo è anche il suo contrario: spesso i generali alla fine ci sarebbero, almeno in un certo numero, ma che possono fare se non hanno truppe adeguatamente selezionate su cui contare?
È chiaro che quella riforma del sistema della pubblica amministrazione che ci è richiesta in modo vincolante dalle normative che stanno alla base dei fondi del Recovery andrà articolata in almeno tre componenti principali.
Accanto a quella a cui la riforma Brunetta prova a rispondere, cioè il reclutamento di una “forza lavoro” adeguata agli obblighi da assolvere (pensiamo anche solo alle carenze di organico nel sistema giudiziario o nell’ispettorato de lavoro), andrà affrontato il tema della valorizzazione delle professionalità di vertice presenti nella pubblica amministrazione che non vanno svilite a fare i passacarte, ma utilizzate senza star lì a vedere le collocazioni, le gerarchie, le gelosie attuali, per finire con la revisione di un sistema legislativo che nell’ossessione di evitare a priori possibili “corruzioni” ha più che altro reso molto difficile qualsiasi creatività.
Piuttosto che perdere il tempo a far cabine di regia su quanta gente può stare insieme a tavola al ristorante (un modo di ragionare davvero da vecchia burocrazia!), le forze politiche dovrebbero dedicare molto sforzo a programmare un adeguamento del nostro sistema di pubblica amministrazione rispetto alla sfida della ricostruzione che ci attende.
Se c’è un tema che sfugge alla lotta ideologica fra i partiti è proprio questo, perché chiunque vinca le elezioni se vuol sperare di governare in modo da rimanere a lungo al potere ha bisogno di poter far conto su una burocrazia pubblica efficiente e all’altezza dei tempi.
È una verità magari ostica da far digerire a quelli che pensano che la cosa migliore sia poter infilare i propri amici nei ruoli che contano per poi distribuire posti alle proprie clientele elettorali.
È un vizio che ha interessato molta parte della nostra classe politica, vorremmo dire senza molte distinzioni fra destra e sinistra, fra partiti storici e nuovi venuti, ma le sue conseguenze sono poi diventate sempre più evidenti.
Che se ne sia accorto un governo nato sotto l’impulso di dover affrontare una sfida ciclopica come il PNRR non stupisce, magari anche perché una buona parte dei suoi membri sono personalità abituate a dirigere staff e unità operative. Val però la pena di chiedere ai partiti di coinvolgersi in questa rivoluzione, se vogliamo difendere l’idea che la democrazia può e deve essere un sistema di competenza e di efficienza.
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