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Sergio Mattarella e Mario Draghi

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Negli esordi, negli approcci iniziali, negli annusamenti che stanno segnando i rapporti tra Mario Draghi presidente del Consiglio incaricato e le forze politiche presenti in Parlamento, si avverte come un fuori sincrono, una sorta di dissonanza che sibila alla stregua di un rumore di fondo: pronto ad alzare i decibel per diventare cacofonia. È il confine che segna il mandato affidato da Sergio Mattarella all’ex presidente della Bce per un esecutivo “che non si identifichi in nessuna formula politica”, e quella che potremmo definire “la logica di schieramento” che sembra ancora dominare nei pensieri, nelle scelte e negli atteggiamenti di gran parte delle forze politiche, che produce veti e segna i confini di adesione possibile al nuovo governo.

È innegabile che un governo di salute pubblica o di emergenza nazionale – i nominalismi non contano – si affaccia quando le combinazioni politiche per disegnare una maggioranza sono fallite. Nasce cioè sulle macerie del gioco politico tradizionale fatto di alleanze, convergenze programmatiche, sintonia di indirizzo, pattuizioni sugli incarichi. In altre parole nasce dalla consapevolezza che ci si muove all’interno di un perimetro politico-istituzionale appunto eccezionale, dove le consuete categorie non possono essere applicate. Esclusi vincoli temporali come per qualsiasi altro governo, non è uno scenario che può durare a lungo perché in qualche misura altera gli equilibri nel rapporto tra poteri, rappresentanza, interventi.

Altresì non è uno scenario da praticare con le movenze dettate dalle logiche di parte, legittime e necessarie quando un sistema democratico opera in condizioni fisiologiche; ma che al contrario diventano macigni quando quelle condizioni per qualunque ragione sono saltate. È come se all’arrivo di un tifone i giocatori insistessero a voler giocare la partita nonostante l’arbitro abbia fischiato la sospensione.

Meglio dirlo con parole più esplicite: in presenza di una condizione di difficoltà profonda del Paese non ancora del tutto introiettata da una parte non trascurabile delle forze politiche, la frustata arrivata dal capo dello Stato è agli antipodi con le logiche di schieramento. Che o vengono disboscate oppure avvilupperanno il tentativo di Draghi trascinandolo a fondo. Il punto di partenza non può che originare dall’onestà intellettuale di riconoscere che in tre anni di legislatura sono state testati vari incastri possibili alla luce dei rapporti di forza stabiliti dalle elezioni del 2018.

C’è stato un governo M5S-Lega che nessun cittadino ha votato perché i partiti si erano presentati ai nastri di partenza con magliette e percorsi diversi; ne è seguito un esecutivo M5S-Pd-Leu più Italia Viva che neppure questo era mai stato presentato agli elettori. Per soprammercato entrambi guidati dallo stesso presidente del Consiglio. Maggioranze e governi assolutamente legittimi eppure per ragioni evidenti distonici non solo con le scelte degli elettori ma perfino con le parole d’ordine dei singoli leader di partito.

Per ragioni che è inutile ricordare e responsabilità che ciascuno può stilare, entrambi questi agglomerati hanno fallito la loro missione. La strambata di Mattarella è figlia di questa situazione. C’è uno scenario del tutto diverso da valutare, di tipo emergenziale perché quello che rischia di andare in frantumi non è questa o quella alleanza bensì l’intero sistema-Paese. Guai a leggerlo inforcando gli occhiali di prima.

È sbagliato dire che Draghi desertifica la politica: senza o al di fuori di essa c’è un cesarismo che la Costituzione rigetta. Come sarebbe sbagliato se la politica, che oggi è ai minimi sindacali in quanto ad autorevolezza e credibilità da parte di cittadini, si attorcigliasse meditando non si capisce quali rivincite. Il rapporto tra il presidente incaricato e i partiti non può essere altro che di reciproca legittimazione.

Draghi non può (né intende) annichilire le forze politiche chiedendo loro solo di ubbidire ai suoi comandi. Dal canto loro i partiti non possono immaginare di piegarsi strumentalmente alla bufera in atto elucubrando su sgambetti da tendere all’avversario o sulla volontà di predisporre trappole parlamentari al capo del governo una volta concessa la fiducia. Ogni singola forza politica porta pro-quota responsabilità per come stanno le cose.

Ogni singola forza politica, a partire da quelle più grandi, non può sottrarsi all’impegno di sostenere un tentativo di altissimo profilo che è indirizzato a salvare l’Italia dal pericolo di naufragio. Ogni singola forza politica ha la dignità e il dovere di avanzare le proprie ricette. Unitamente a quello di riconoscere la legittimità dell’avversario: con tutto il rispetto, anatemi o demonizzazioni non se li può permettere nessuno.

Draghi procede sull’orlo del rasoio e in fatto di rasoi non può che impugnare quello di Occam: andare all’essenziale sbianchettando i fronzoli. Vale per il programma che stilerà, vale per la scelta dei ministri. Le discettazioni sul fatto che il governo sia politico o tecnico appaiono surreali. L’incarico assegnato dal presidente della Repubblica è quanto di più politico ci sia. E sulla scelta dei ministri non può che valere l’articolo 92 della Costituzione: “Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri”. Chi ci vuole stare, ci stia. Chi no, avrà modo di spiegarlo agli elettori.


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