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A DISTANZA di pochi giorni, due notizie sono venute a rompere la monotonia (si fa per dire) di questo inverno: crisi di governo da noi, e riduzione di oltre due punti nella crescita italiana di quest’anno. Riduzione, questa (stimata dal Fondo monetario) che è ben maggiore di quella prevista per l’Eurozona (un punto), e che si distacca dalle revisioni – verso l’alto! – della crescita stimata per gli Stati Uniti e per i Paesi emergenti.
I due eventi – più crisi e meno Pil – sono legati? Purtroppo sì, e il meccanismo va dall’instabilità politica alla (s)fiducia, che mina la voglia di spendere e di investire, per finire alla reputazione sui mercati (vedi l’aumento dello spread) che rafforza l’immagine di un’Italia fragile e inaffidabile. Non è certo la prima volta, come già detto, che il mondo scrolla le spalle guardando all’instabilità politica della Penisola.
Ma è certo la prima volta che una crisi di governo si dà nel pieno di una pericolosa pandemia. È vero che le tristi cifre del virus cominciano a rallentare un po’ dappertutto (Spagna e Portogallo sono una preoccupante eccezione), ma queste alternanze di miglioramenti e peggioramenti si sono già date in passato, e in ogni caso le energie che avanzano dopo la lotta al virus dovrebbero essere tutte ormai proiettate verso il grande progetto di miglioramento strutturale legato alla “manna dal cielo” del Recovery Fund. Assistiamo invece al frusto e logoro spettacolo delle consultazioni e delle alchimie di nuove formule di governo. Intanto l’Italia si allontana ancora di più dall’Europa e dal resto del pianeta.
Le politiche economiche hanno fatto la loro parte: le imponenti misure espansive (di bilancio e monetarie) messe in opera in giro per il mondo, assieme alla luce – il vaccino – in fondo al tunnel del virus, hanno condotto il Fondo a rivedere al rialzo la crescita del Pil mondiale. E queste previsioni non scontano ancora né le nuove misure espansive in America annunciate dal Presidente Biden né l’impatto pieno delle centinaia di miliardi di euro del Recovery Fund. Le politiche economiche, tuttavia, hanno bisogno di passare dalla ‘messa a disposizione’ alla implementazione.
E qui l’Italia è ferma al palo, mentre gli altri Paesi si stanno attrezzando adeguatamente. Il problema non è quello dei deficit e dei debiti pubblici. In un recente e pensoso intervento della Chief-Economist dell’Ocse, Laurence Boone, questa osservò che i paradigmi della politica economica stanno cambiando: il supporto dell’economia deve vedere un ruolo più attivo delle finanze pubbliche, che devono abbandonare il totem del pareggio di bilancio.
Ma questi convincimenti, che si fanno strada nell’accademia, stentano, dice la Boone, a passare dalle torri d’avorio ai palazzi dei reggitori delle politiche economiche: ministri delle Finanze, alti burocrati, grand commis e mandarini assortiti sono ancora legati ai feticci del risanamento e dell’austerità (una lodevole eccezione è, fortunatamente per l’America, la nuova responsabile del Tesoro, Janet Yellen: ha già dichiarato che non bisogna preoccuparsi del deficit). Il problema è un altro: la sfida che ci attende è quella di fare del ‘debito buono’, per usare le parole di Mario Draghi, un debito che innalzi il potenziale produttivo del Paese e quindi si ripaghi da solo.
Quid agendum, allora? Di là dall’Atlantico, Biden ha evocato l’immagine dell’economia di guerra per contrastare il virus, e non c’è bisogno di molta immaginazione per capire perché: i decessi da Covid-19 in America hanno già superato in meno di un anno il numero dei soldati americani morti nei quattro anni della Seconda guerra mondiale.
Ma noi non abbiamo bisogno di misure da economia di guerra: abbiamo bisogno di cambiare le procedure di ordinaria e straordinaria manutenzione dell’economia di pace. Abbiamo bisogno non di litigare sui massimi sistemi, ma di far funzionare al meglio quei minimi sistemi che, nei Paesi ‘normali’ (nella qual categoria non rientriamo), permettono di spendere presto e bene i fondi pubblici. E qui veniamo alla vera materia del contendere: il progetto che Bruxelles ci chiede per poterci avvalere dei fondi europei (dei quali abbiamo ottenuto, e dobbiamo ringraziare il Governo Conte, la quota più alta). Una volta depositato il polverone di questa anomala crisi, si spera che le energie della nuova amministrazione possano finalmente essere dirette al problema di fondo: costruire un piano credibile di spesa, con serrati cronoprogrammi e procedure rapide.
Marco Tronchetti Provera disse, anni fa: “Per passare dall’idea alla costruzione di un impianto di pneumatici in Cina sono stati necessari dodici mesi, in Romania ventiquattro. E in Italia? Ci sono voluti 5 anni, tra discussioni, consulti e innumerevoli autorizzazioni. E le cose, con la devoluzione, andranno di peggio in peggio”. Con la devoluzione e le competenze concorrenti fra Regioni e Stato le cose sono in effetti andate peggio, come si è visto anche nel corso delle politiche di contrasto al virus. Tornando al PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, che è il nome ufficiale del progetto su come spendere i fondi europei), il problema non è quello di elencare i settori di intervento, che peraltro sono già stati indicati dalla Commissione europea (che ha avuto anche l’intelligenza e la saggezza di mettere in primo piano la riduzione dei divari territoriali fra Nord e Sud).
Il problema è quello delle procedure di spesa, un problema intimamente legato alla governance del PNRR. Il convitato di pietra, naturalmente, sta nello smantellamento di lacci e lacciuoli. E qui sia consentito un modesto suggerimento. Perché partire sempre dall’alto (top-down) e non dal basso (bottom-up)? La legge sulle semplificazioni è un tipico esempio del metodo top-down. Ma c’è un altro approccio. Una ricerca svolta dalla “Confederazione nazionale dell’artigianato e della piccola e media impresa” ha rivelato che, per aprire una gelateria, “sono necessari fino a 73 adempimenti, con 26 enti diversi”. Ecco un “compito a casa” per il governo prossimo venturo. Prendete i “cinque anni” di cui parlava Tronchetti Provera, prendete quella ricerca della Confartigianato, elencate le “innumerevoli autorizzazioni” per la fabbrica di pneumatici, elencate i 73 adempimenti per la gelateria, smontatele tutte ad una ad una, smontateli tutti ad uno ad uno per vedere dove si possa abolire, semplificare, accorpare… Molte delle soluzioni trovate potranno poi automaticamente risolvere altre lungaggini valide per molte altre fattispecie. Partire dal basso, insomma…
Senza dimenticare che le soluzioni già ci sono: si chiamano “best practices”. Basta andare in giro per il mondo e studiare – e imitare e adattare – le migliori procedure in uso in altri Paesi per progettare, autorizzare, gestire… Che tipo di professionalità è necessario per fare tutto questo? Due considerazioni si impongono, che sembrano antitetiche: da un lato c’è bisogno di una mentalità imprenditoriale, di una cultura del fare, di gente che, nella barriera che separa il legiferare dal gestire, ha incontrato e sofferto i lacci e i lacciuoli. Dall’altra, c’è bisogno dei ministeri, c’è bisogno di coloro che i lacci e i lacciuoli li tendono per professione, e che sanno come snodare nodi e lacci (come dice l’antico detto, “il miglior guardiacaccia è un ex-bracconiere”). E ci sono, fra i dirigenti pubblici, molte eccellenze, molti esempi di intelligente dedizione.
Abbiamo bisogno di tutte e due queste professionalità, da mettere al servizio di una storica stagione di investimenti pubblici, di un’epica impresa di rifondazione della res publica italiana.
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