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Mai come adesso, dopo il reality del voto di fiducia al Senato, le due Italie si fronteggiano rimirandosi con altezzosità mista a sconcerto. La prima è quella di rissa e di governo che a palazzo Madama ha giocato fino all’ultimo con i numeri come se fossero i grani di un rosario da compitare per ottenere la grazia finale. È un’Italia prossemica nella sua abulia, specchio di una cittadinanza al tempo stesso impaurita e menefreghista. È l’Italia figlia di una corsa al ribasso nelle competenze e nelle speranze, che al momento del voto politicamente più importante e significativo gioca a fare cucù come il socialista Riccardo Nencini, sagoma del volenteroso che verrà: con Conte, beninteso. O come l’ex grillino Lello Ciampolillo, che i bene informati assicurano voglia curare la Xylella col sapone, e sogna il ministero dell’Agricoltura: perché no, tanto un rimpasto è come una roulette e se metti la fiche al posto giusto… Si chiama governabilità 2, 3, 4.0, quella della casualità figlia del gioco della convenienza. Poi c’è l’altra Italia, che non è dei costruttori di cartongesso bensì dei produttori: di idee, di redditi, di occasioni, di opportunità, di merito. Ma anche di rassegnazione e ricerca dell’angolo migliore dove aspettare che passi la nottata.
Sono due Italie che entrambe ci appartengono e vivono nel paradosso che se vince l’una l’altra ripiega ma che sono e restano inesorabilmente intrecciate e costrette a convivere. La prima Italia è impossibile da biasimare oltremodo. Vi si riflette un Paese che da decenni sceglie i suoi rappresentanti cercando di forzare le gabbie dei signori delle candidature e puntando ogni volta su un “nuovo” che poi al dunque si dimostra gravido di eredità ancestrali: il Paese che coltiva il particulare e lo considera non un danno ma una scorciatoia da imboccare ogni volta che è possibile. È l’Italia degli elettori che scelgono i leader e poi restano delusi, in un circolo vizioso che non ha fine. Che diminuiscano ad ogni tornata può sorprendere solo chi ha la testa fra le nuvole.
La seconda Italia è quella che vorrebbe liberarsi di pastoie e zavorre che conosce bene perché le scorge dappertutto. Ma non ci riesce e alla fine, immalinconita, lascia cadere le braccia. Con la prima Italia non si governa il cambiamento né si colgono i frutti del Next generation Ue che dovrebbe farci riprendere a correre. Sperabilmente, sapendo e avendo prima deciso verso dove. L’altra Italia non aspetta che il momento giusto per farsi valere: solo che non arriva mai perché chi dovrebbe sentire l’esigenza di prendersi quelle responsabilità, seriamente e senza infingimenti, più che ammiccare non sa fare.
È per questo che l’Italia è un Paese spezzato: economicamente, geograficamente, socialmente. Sono queste due Italie che il governo – qualunque governo, a partire da quello che c’è e opera – deve cercare di riunire, amalgamando il meglio e sbarazzandosi del peggio. Il presidente del Consiglio vuole allargare la sua maggioranza per ricostruire solidità e coesione. È l’Italia del Palazzo che esprime una governance di cui qualsiasi Stato democratico non può fare a meno. L’altra Italia ha assistito dagli schermi tv ad uno spettacolo disarmante ma senza un canale politico non può far valere le sue istanze potendo solo rintanarsi nel rancore: carburante pericoloso. Le due Italie marciano affiancate, sopportandosi vicendevolmente. Eppure perfino le convergenze parallele di Aldo Moro alla fine dovevano obbligatoriamente incontrarsi per saldarsi. Beh, che aspettiamo?
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