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E’ LA TERZA Camera della Repubblica. Gestisce le risorse, ha voce in capitolo su tutto, anche su materie che sarebbero di esclusiva competenza dello Stato. Un oggetto misterioso che da 37 anni vive e convive all’ombra del potere e costituisce essa stessa una sorta di contropotere. La sede nazionale è in via della Stamperia, al centro di Roma. Palazzo Chigi è a poche centinaia di metri ma le porte comunicanti non mancano. Quando nacque, ufficialmente nel 1983, in pochi la presero sul serio e forse nessuno, neanche i fondatori, avrebbe immaginato il peso che poi avrebbe avuto in seguito. L’ultima formulazione conosciuta, riveduta e corretta, è “Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato e le Province autonome di Trento e Bolzano”. E adesso, che l’avete scoperta, immaginateli, i presidenti, notabili di ieri e di oggi, immolati alla causa del federalismo, nella Sala delle riunioni.
Un antico palazzo rinascimentale edificato da un cardinale. Tra affreschi, stucchi e antiche colonne si decidono i destini delle nostre regioni, la quantità di asili nido, i ticket, il costo dei biglietti dell’autobus. Destini che da tempo si ripetono con le stesse modalità e sempre nella stessa direzione. A chi tanto e chi niente, seguendo criteri imprescindibili e, casualmente, sempre a tutto vantaggio della triade: Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, con incursioni toscane e piemontesi. In realtà, quando i fondatori si riunirono scelsero Pomezia, cittadina poco nota dell’hinterland romano. Più Centrosud che Centro. Più periferia che Roma. Era il 15 gennaio del 1981, quando alla stregua di carbonari, in una zona commerciale semi-disabitata e scarsamente illuminata, i presidenti delle regioni italiane si incontrarono all’Hotel Selene. Non pensavano certo che quella loro creatura sarebbe diventata un giorno l’appendice misconosciuta del Parlamento. Tutt’al più immaginarono di dar vita ad una conferenza consultiva, un organismo che avrebbe coordinato e semplificato i rapporti tra enti e governo.
IL VERBALE DEL 1981 “MAI CONTRO LA REPUBBLICA”
Nel verbale della prima riunione, poco meno di un documento storico, un pezzo raro, custodito dallo Svimez come una reliquia, l’allora presidente della Regione Liguria, il giurista Giovanni Persico, iscritto al Partito repubblicano e scomparso a 90 anni 5 anni fa, volle fare una premessa: «È importante prevedere una organizzazione unificata, uffici e strutture, per la documentazione e la ricerca che curi i rapporti tecnici con gli uffici amministrativi: ma la somma delle Regioni che è la Repubblica non può contrapporsi alla stessa Repubblica». Parole che oggi suonano come visionarie. Si pensi al gigantesco contenzioso con lo Stato, un’idrovora che si nutre di ricorsi e di burocrazia e paralizza sia enti che ministeri. E si pensi al confronto/scontro quotidiano tra i governatori e il governo durante l’assedio della pandemia.
Per evitare che la Conferenza diventasse un palcoscenico si propose che la presidenza avesse un unico potere: convocare le assemblee e decidere l’ordine del giorno. La definitiva istituzione, arrivata due anni dopo, nel 1983, ne ribadì lo spirito cooperativo. Una conferenza come organo di raccordo per favorire il principio della leale collaborazione e favorire la concertazione. Non certo quello che poi sarebbe diventata, il centro decisionale della parte più sviluppato del Paese con una più o meno rigida separazione di funzioni.
D’allora, dicevamo, molto è cambiato. La spinta regionalista non si è tradotta in una Camera delle Regioni. Il referendum del 4 dicembre 2016, che avrebbe dato vita al Senato delle regioni, fu bocciato. Cosi che a seguito della modifica del Titolo V della Costituzione sono cambiati gli assetti tra i diversi livelli di governo, la riforma è rimasta a metà e la Conferenza è stata riconosciuta a tutti gli effetti anche dalla Corte costituzionale. «I criteri con i quali vengono distribuite le risorse però non sono cambiati – punta il dito il professor Adriano Giannola, presidente della Svimez – i fondi della sanità, ad esempio, continuano ad essere ripartiti in base all’età della popolazione. Cosi che la Campania, una delle regioni più povere e più giovani d’Europa, continua a ricevere meno risorse. E questo discorso vale in genere per tutto il Mezzogiorno».
Non è l’unica anomalia. «Se quel referendum voluto da Matteo Renzi avesse avuto un esito diverso, per il Sud la fregatura ci sarebbe stata comunque. In pochi rilevarono, e tra questi Massimo D’Alema che ne parlò una volta e poi basta, che i senatori sarebbero stati rappresentati in base alla popolazione. E dunque avremmo avuto anche allora più lombardi, piemontesi e veneti che calabresi o pugliesi».
LO STRAPOTERE DELLA TRIADE E GLI EQUILIBRI DI SALVINI
La Conferenza Stato-Regioni, presieduta dal ministro degli Affari regionali, Francesco Boccia (Pd) si occupa impropriamente della ripartizione dei fondi per la sanità, fondi che costituiscono il 75% del bilancio delle regioni e la cui competenza generale resta a carico dello Stato. Gestisce le materie di attribuzione per ciascuna regione. Fatalmente economia, lavoro e sanità finiscono sempre agli stessi, cioè nell’orbita della triade. Ciononostante, non più tardi di ieri, il capo leghista Matteo Salvini, ha chiesto «nuovi equilibri nella Conferenza Stato-Regioni». il governatore veneto Luca Zaia, un minuto dopo ha rivendicato l’autonomia. Sarà un caso ma nella nuova segreteria del Carroccio è riapparsa come d’incanto l’ex ministro degli Affari regionali, Erika Stefani, la stessa che durante il suo mandato spacciò il Mezzogiorno come il paradiso dell’assistenzialismo prendendo per buoni solo i numeri della Ragioneria centrale dello Stato (il 22,5% del totale) e tralasciando quelli della spesa regionalizzata del settore pubblico (il 77,5%). Un’esperta nel gioco delle tre carte, insomma.
L’assalto alla diligenza è pronto. La Lega vuole tornare al vecchio amore: autonomia e secessione. L’ultima casamatta è la Conferenza Stato-Regioni, destinata ad assumere sempre più rilevanza dopo la vittoria del Sì al referendum che ha tagliato la rappresentanza parlamentare. Per il gioco dei pesi e contrappesi crescerà invece il ruolo ipertrofico dei Super governatori.
Forse qualcuno dovrebbe ricordare che le varie competenze degli enti regionali – politiche finanziarie, erogazione dei servizi pubblici; promozione di accordi di programma; processi di ricostruzione; consulenze socioassistenziali e gestione delle risorse Tpl – dovrebbero confluire in un solo obiettivo: la riduzione del disagio sociale: la creazione posti di lavoro, la lotta alla disuguaglianza e la perequazione infrastrutturale, (art.22 della legge Calderoli). Temi ormai scomparsi dall’ordine del giorno della Conferenza. Con buona pace del ministro Boccia.
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Non sono governatori (carica che non esiste), ma presidenti di Giunta regionale. La loro arroganza nasce dalla modalità di elezione diretta, che però non è l’unica, cfr. https://www.treccani.it/enciclopedia/presidente-della-giunta-regionale/.