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Palazzo dei Normanni, sede dell’Assemblea regionale siciliana

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di CESARE MIRABELLI *

È GENERALMENTE condivisa la convinzione che uno dei requisiti essenziali per la ripresa dell’economia sia rendere efficiente la pubblica amministrazione. Questo non riguarda solamente l’amministrazione statale, anche nelle sue articolazioni decentrate, ma comprende il funzionamento delle amministrazioni regionali e degli enti locali. A un livello più elevato delle procedure amministrative e delle strutture burocratiche, ma non meno rilevante per l’efficienza del sistema istituzionale, si colloca la ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni.

L’esperienza fatta con la gestione della pandemia, la sovrapposizione e confusione di competenze, sino all’aperto contrasto di provvedimenti adottati o annunciati, mostra come sia opportuna una revisione della riforma del titolo V della costituzione adottata nel 2001, per delineare una migliore definizione dell’ambito delle competenze statali e regionali, e introdurre una chiara enunciazione del potere di supremazia statale, quando lo richiedano situazioni i di rilievo nazionale, con l’indicazione delle condizioni e delle modalità per il suo esercizio.

OLTRE IL QUOTIDIANO

È anche condivisa l’opinione che siano necessarie azioni ispirate a una visione politica di ampio respiro, che non si limitino alla pur necessaria gestione di breve periodo. Altrimenti sarebbe come se il tema della formazione delle nuove generazioni, adeguata alle loro aspirazioni e al livello culturale, economico e sociale che il Paese intende raggiungere, si esaurisse nelle attività richieste per la fornitura di banchi e mascherine o nella raccolta di nuovo personale, indipendentemente dalla qualificazione e selezione di quest’ultimo.

Mentre richiederebbe la più impegnativa progettazione di nuovi modelli organizzativi e curricolari, raccordati anche ai livelli professionali richiesti oggi e ancor più in futuro. Considerazioni non dissimili, nel metodo, possono essere fatte se si pone mano a una revisione della Costituzione con una visione meno ancorata alla sedimentazione del passato e che prenda atto di aperture o incoerenze, a seconda dei punti di vista, introdotte nel disegno dei rapporti tra Stato e Regioni con la riforma del 2001. I nodi che possono essere considerati riguardano le Regioni a statuto speciale e l’autonomia differenziata che può essere attribuita a una o più, al limite tutte le Regioni a statuto ordinario. Per le prime c’è da chiedersi se valga ancora, e se e come sia ancora giustificata, la loro “specialità” originaria; o se essa non finisca con il risolversi in un privilegio oppure in un limite.

LE CARATTERISTICHE

Alle Regioni Friuli-Venezia Giulia, Sardegna, Sicilia, Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta la costituzione attribuisce «forme e condizioni particolari di autonomia», previste dai rispettivi statuti speciali adottati con legge costituzionale. Per le Regioni di confine la specialità ha origine e fondamento in vincoli assunti con trattati internazionali e nella tutela di minoranze linguistiche. Per le altre il fondamento è raccordato alla insularità e a remote spinte separatiste impallidite nel tempo. Ci si può chiedere se lo strumento che è stato congegnato risponda alle odierne esigenze. Il divario nelle dosi di autonomia tra le Regioni a statuto speciale e le altre si è attenuato.

L’autonomia statutaria delle Regioni ordinarie si è molto rafforzata. Lo statuto di ciascuna di esse, deliberato dal Consiglio regionale, non è più sottoposto ad approvazione con legge statale, come prevedeva in origine la costituzione. Ora lo statuto, approvato o modificato da ciascuna Regione «in armonia con la Costituzione, ne determina la forma di governo e i principi fondamentali di organizzazione e funzionamento». La relativa deliberazione può essere solo oggetto di un giudizio di legittimità costituzionale che il governo può promuovere nel ristretto termine di trenta giorni dalla pubblicazione. Per quanto riguarda lo statuto, le cinque Regioni “speciali” godono di un privilegio che costituisce anche un limite. Lo statuto di ciascuna di esse è adottato con legge costituzionale.

Questo costituisce una garanzia e consente di attribuire livello costituzionale a qualche specialità di disciplina; ma l’uso di questa fonte normativa consente anche allo Stato una “marcatura stretta”, per usare un’espressione calcistica, dell’autonomia. Il divario nelle dosi di autonomia tra le due categorie di Regioni è stato egualmente attenuato con la riforma costituzionale del 2001, che addirittura apre a «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» anche per le Regioni ordinarie. Per esse non è richiesta una legge costituzionale, ma una legge ordinaria approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti sulla base d’intesa fra lo Stato e la Regione interessata. Un percorso che permetterebbe di rendere ordinaria la specialità, e di andare anche oltre.

NO ALLE DISEGUAGLIANZE

Sullo sfondo resta, ben più corposa, la sostanza finanziaria e la ripartizione delle risorse. I principi che la costituzione pone a base del federalismo fiscale tendono all’uguaglianza mediante lo sviluppo economico, richiedono coesione e solidarietà sociale, rimozione degli squilibri economici e sociali, effettivo esercizio dei diritti della persona. L’autonomia e le differenze tra Regioni non devono essere causa di diseguaglianze tra cittadini nel godimento dei diritti civili e sociali. Una visione di lungo periodo sollecita a riflettere su quale sia lo sviluppo più appropriato dei due principi costituzionali fondamentali in questa materia, la unità e indivisibilità della Repubblica e il riconoscimento delle autonomie territoriali. In questa prospettiva ci si può chiedere se sia opportuno mantenere diverse categorie di Regioni, e se la tutela delle minoranze e la condizione dei territori e delle comunità di confine non debbano essere viste nel diverso contesto aperto dalle istituzioni europee.

* Presidente emerito della Corte costituzionale


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