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Luigi Di Maio e Beppe Grillo

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Luigi Di Maio parla dell’aprirsi di una nuova era per i Cinque Stelle. Verrebbe da dire: deve sperare che non si risolva tutto come quando proclamò di avere abolito la povertà. Perché la faccenda è solo agli inizi e certo oggi il movimento ormai diventato un partito (postmoderno, ma lo sono anche gli altri) ha vinto una battaglia (piccola), ma parlare di una vittoria nella guerra per l’egemonia politica è prematuro. La sostanza che emerge da un voto ben partecipato, ma non a livelli altissimi, è che la base dei militanti si è assuefatta al cambiamento: è poco interessata al movimento di testimonianza più o meno profetica e invece è contenta di essere riuscita a mandare il suo partito al governo, tanto più che si preannuncia una stagione in cui il governo avrà tanti soldi da spendere e dunque si potrà anche “sognare” di fare se non la rivoluzione un bel cambiamento. Ovvio che in quest’ottica non ci sia interesse a cambiare classe politica, per due banali ragioni.

NIENTE FORMAZIONE

La prima è che una classe politica di riserva che copra tutte le posizioni che verrebbero lasciate libere dal divieto di candidatura dopo il secondo mandato, non è disponibile. Il movimento ha lavorato solo a livello istituzionale e dopo una stagione di strabordanti successi ha praticamente imbarcato quasi tutto quel che aveva. Il pochissimo rimasto fuori può facilmente recuperarlo. Non essendoci in M5S luoghi di formazione politica non c’erano neppure spazi dove potessero formarsi competitori contro chi era al potere. La seconda ragiona è che nel momento in cui si prospetta la possibilità di gestire oltre 200 miliardi di fondi europei, è ovvio che convenga puntare come personale su chi si è già fatto le ossa nei meandri ministeriali e istituzionali. Nuovi venuti dovrebbero imparare da zero e sarebbe tutto a discapito del “potere” che i Cinque Stelle si sono conquistati in questa legislatura. Si tenga poi conto che intorno ad ogni “big” ci sono squadre di personaggi più o meno “tecnici” che di quel potere hanno approfittato per scalare posizioni ed è gente che non ha nessuna intenzione di passare la mano.

ECCO I CESPUGLI

Questo spiega la conversione ad una politica di alleanze con le forze esistenti, che di fatto significa una alleanza col PD e qualche cespuglio come Renzi. Perché non con la Lega? La risposta è semplice: ribaltare le alleanze in questa fase significherebbe passare per elezioni anticipate (Mattarella l’ha già messo in chiaro), ma in quel caso è dubbio che Salvini rinuncerebbe ad una alleanza di centrodestra per un’intesa con un soggetto come M5S che unendo i suoi futuri consensi a quelli della Lega non farebbe una maggioranza sufficiente per andare al governo. Di conseguenza se bisogna restare nell’area del centrosinistra, tanto vale portare avanti il più possibile questa coalizione (il che non significa necessariamente questo governo) che ha già nelle sue mani il controllo sperabile sui “favolosi” fondi europei. Il calcolo fatto così è però teorico, perché guarda a tutto dall’ottica del centralismo politico romano. Infatti la stabilizzazione dell’asse di un centro-sinistra a matrice M5S-PD deve riuscire a produrre un successo sui territori, perché è qui che verrà testa prima che a livello di elezioni nazionali che si vogliono evitare. In questi casi, più che il parere dei votanti sulla piattaforma Rousseau, conterà quello degli elettori. Non siamo più ai tempi del mitico “contrordine compagni!” che si diceva caratterizzasse il governo dell’elettorato da parte del PCI (in realtà quel partito sapeva come far maturare con pazienza le svolte) e dunque non sappiamo se gli elettori che si innamorarono del partito che era contro tutto e tutti lo seguiranno in massa nel sostegno ad uno degli obiettivi della sua critica feroce dei tempi recenti.

CONSENSO ELETTORALE

A Roma possono cancellare con un tratto di penna le controversie giuridiche fra M5S e PD, ma nei sentimenti delle varie basi elettorali questi scontri non si comporranno così facilmente. Perché il problema riguarda anche il consenso elettorale del PD e, in questo caso, anche i suoi gruppi dirigenti locali. Non è detto che la strategia romana dell’incontro che porta a cercare candidati “civici” graditi ai grillini sia accolta con giubilo nelle varie regioni e città. Già si vedrà come va in Liguria, dove si sta sperimentando questa via e già si percepiscono più che inquietudini in altri contesti, da Torino a Roma, tanto per citare i più importanti.

IL QUIRINALE

L’intesa che si sta cercando di costruire dal duo Zingaretti-Di Maio (sembra col sostegno sornione di Renzi) dovrà scontare la scarsa disponibilità dei Cinque Stelle a rinunciare a voler piantare ovunque le loro bandierine (vedi la vicenda Autostrade con l’intemerata di Di Maio che ieri è tornato allo slogan “fuori i Benetton”). A Roma si guarda solo alla gestione dei fondi europei e alla scadenza del mandato di Mattarella, ma il mondo non comincia e non finisce lì. Adesso c’è la prova incombente della gestione della nuova fase del Covid e a settembre si dovranno fare i conti con gli esiti di quelle urne. Poi si dovrà lavorare davvero sulla programmazione dei piani per l’uso dei sussidi europei (e tornerà in campo la questione del MES) e lo si farà in un contesto economico e sociale che non si presenta tranquillo. A fronte di tutte queste incognite come si comporterà il PD che si gioca la sua identità e come si muoveranno i leader Cinque Stelle che stanno ancora cercando la composizione delle loro tensioni (anche se, indubbiamente, Di Maio sta riconquistando una centralità notevole)?


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