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Il ministro Renato Brunetta

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A VOLTE ritornano. E anche al mio amico Renato Brunetta era capitato di tornare al governo, dieci anni dopo la prima volta, nello stesso ministero, che – magari con definizioni diverse – si occupa di pubblica amministrazione e di 3,4 milioni di dipendenti pubblici. In questa occasione poi non si trattava di un governo qualsiasi (come quello di dieci anni fa che fu messo alla porta per eccesso di spread), ma di quell’esecutivo presieduto da Mario Draghi destinato a passare alla storia.

È tanto grande la soddisfazione di lavorare in questa compagine che Brunetta la trasmette anche al Gotha dell’economia e dell’impresa riunita a Cernobbio per il tradizionale convegno del Forum Ambrosetti. Ecco come Dagospia ha raccontato la performance di Brunetta: “Il ministro della Pubblica amministrazione, senza cravatta quasi si senta a casa propria, a Villa d’Este racconta un Paese che per lui è finalmente «in una congiuntura astrale irripetibile».

Ma non è l’allineamento delle stelle che anima la platea, è il soufflé.  «Lo sapete fare il soufflé?», azzarda Brunetta. «Si mette in forno, si lascia lievitare, quello profuma e viene voglia di aprire per dare un’occhiata. Ma se apri, implode. Ecco, il governo è così: non aprite quella porta». E giù risate in sala.

Non è chiaro se Brunetta volesse dire, per mezzo del soufflé, che l’esperimento dei tecnici di alto profilo per lui va lasciato continuare. Non solo fino alle elezioni del 2023, ma oltre. È chiarissimo invece che buona parte della platea applaude perché lo capisce così. L’applausometro, fino a quel momento di circostanza e buona educazione, schizza a livello di primato del Meeting di Villa d’Este 2021.

Ma il destino cinico e baro era in agguato. Non a Cernobbio dove tutto è andato “a taralluci e vino”,  ma sui media e nel mondo sindacale e politico. Nei giorni precedenti il ministro aveva espresso l’intenzione di rimandare negli uffici i pubblici dipendenti ora in smart working, salvo una  soglia non superiore al 15%. Il tono sembrava lo stesso di quando dieci anni prima aveva dichiarato guerra all’assenteismo.

Del tipo: “si torna al lavoro, la festa è finita”. I suoi critici hanno avuto gioco facile nel dire: «Ecco il vero Brunetta. Nonostante tutti i salamelecchi che ha propinato fino ad oggi: dal Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale, firmato il 10 marzo scorso, quando il governo non aveva ancora superato un mese di vita  per arrivare a quella sfilza di decreti, bandi, promesse che hanno caratterizzato i primi sei mesi di attività legislativa».

E non dimentichiamo che anche allora l’apertura di un dialogo con i sindacati (con annessi i rinnovi dei contratti di lavoro) fu criticata proprio sulla presunzione diffusa di un’irrecuperabilità delle organizzazioni sindacali della PA nel cimento delle riforme. Poi di lavoro Brunetta ne ha compiuto tanto. Iniziamo con l’elenco, partendo dall’avvenuta conversione in legge del d.l. 1° aprile 2021, n. 44 (c.d. decreto Covid), che ha innovato le modalità di svolgimento dei concorsi pubblici secondo i principi della digitalizzazione, celerità e trasparenza).

Successivamente  vi è stata la conversione in legge del d.l. 31 maggio 2021, n. 77 (c.d. decreto Semplificazioni) che ha introdotto forti misure di semplificazione amministrativa in alcuni dei settori oggetto del Pnrr, quali la transizione ecologica ed energetica e la green economy, le procedure di affidamento degli appalti pubblici, alcune disposizioni relative al procedimento amministrativo (il c.d. silenzio assenso, il potere sostitutivo e l’annullamento d’ufficio) infine, la transizione digitale e l’innovazione tecnologica. Da ultimo con la conversione definitiva del c.d. decreto reclutamento  si è completato, almeno dal punto di vista normativo, il processo di rafforzamento della capacità amministrativa delle pubbliche amministrazioni funzionale all’attuazione del Pnrr.

Poi tra il dire e il fare c’è sempre di mezzo il mare. E’ ammissibile che un ministro così attivo e innovativo sia accusato di neoluddismo perché ha espresso delle riserve su come è stato attuato lo smart working nelle amministrazioni durante la crisi sanitaria? Basta leggere il testo del Patto del 10 marzo per rendersi conto che già allora le parti condividevano una valutazione comune sulla esperienza dello smart working e dei limiti riscontrati: “Con riferimento alle prestazioni svolte a distanza (lavoro agile), occorre porsi nell’ottica del superamento della gestione emergenziale, mediante la definizione, nei futuri contratti collettivi nazionali, di una disciplina che garantisca condizioni di lavoro trasparenti, che favorisca la produttività e l’orientamento ai risultati, concili le esigenze delle lavoratrici e dei lavoratori con le esigenze organizzative delle Pubbliche Amministrazioni, consentendo, ad un tempo, il miglioramento dei servizi pubblici e dell’equilibrio fra vita professionale e vita privata”.

Sono le medesime considerazioni che il ministro ha svolto in questi giorni e riprese con maggiore ampiezza in un articolo ospitato da Il Foglio. Diciamoci la verità: nei provvedimenti assunti durante l’emergenza sanitaria la pubblica amministrazione ha dovuto applicare il lavoro agile, per un motivo che, nella maggioranza dei casi (per fortuna ci sono esempi positivi, come l’Inps che ha svolto un’attività multipla di quella ordinaria con il 97% dei dipendenti da remoto), non riguardava il modo di svolgere la prestazione, ma l’esigenza di ridurre il più possibile gli spostamenti e gli assembramenti. Lo smart working nella PA è stato un provvedimento dettato da ragioni sanitarie. Se poi da qualche parte si è riusciti anche a lavorare, è stato sicuramente meglio; ma ciò è dipeso dalla iniziativa particolare di qualche ufficio. Come con la Dad nella scuola.

Per farla breve se nei settori privati lo home working (ovvero il lavoro nel tinello di casa propria) ha consentito di continuare a lavorare, nella PA si è messa in conto anche la continuità del servizio, purché il dipendente non andasse in giro.

Brunetta lo spiega: “Non esiste – ha scritto su Il Foglio – ancora una piattaforma sicura dedicata allo smart working nella Pubblica amministrazione, l’interoperabilità delle banche dati è un processo in fieri, spesso i dipendenti sono stati costretti a lavorare ricorrendo ai propri computer e ai propri device”. Inoltre “il lavoro da casa durante l’emergenza Covid, dunque, non ha certamente consentito quei processi di trasformazione organizzativa nell’ottica della definizione di obiettivi prestazionali  specifici e misurabili, volti a riconoscere maggiore autonomia e responsabilità al dipendente”.

Per farla breve. La PA, per come è messa oggi, con tutti i limiti (anche strutturali e tecnologici) sul versante della digitalizzazione si è trasferita – questa è stata la realtà prevalente – a domicilio per mesi. Avrebbe potuto essere davvero più efficiente? Poi, evitiamo di mettere il carro davanti ai buoi.

La trattativa con i sindacati è in corso, ma il presidente dell’Aran (l’Agenzia che fa da datore di lavoro per conto dello Stato) Antonio Naddeo anticipa a Huffpost che le norme del contratto saranno chiuse a breve. Sì “il contratto”’ perché il lavoro agile uscirà dalla lunga stagione della regolamentazione abbozzata, in linea con una modalità di lavoro che a gennaio dell’anno scorso, prima dell’arrivo della pandemia, riguardava appena l′1,7% dei dipendenti pubblici. Questo dato (che va messo a confronto con il milione di lavoratori pubblici in regime di lavoro agile) è la migliore prova della realtà dei fatti. Natura non facit saltum. 


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