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Il ministro del lavoro Andrea Orlando

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C’ERA da aspettarselo: dal blocco dei licenziamenti e dall’erogazione della cig in deroga, si sa come si entra, come si rimane, ma non come si esce. Il decreto Sostegni bis, ora all’esame del Parlamento, contiene una mediazione ragionevole: le aziende (sostanzialmente dell’industria manifatturiera e dell’edilizia, sia pure con  particolari caratteristiche) possono tornare alla normalità della gestione del personale a meno che non utilizzino l’opportunità di avvalersi degli sconti sull’utilizzo della cig; mentre le aziende che non dispongono di strumenti ordinari di tutela del reddito e dell’occupazione dei propri dipendenti  proseguono nel regime di divieto dei licenziamenti   fino a tutto ottobre, mentre la corresponsione della cig da covid 19 è confermata fino al 31 dicembre. 

Ormai è evidente che la sede di un’eventuale ulteriore mediazione avverrà in sede parlamentare, probabilmente già nelle Commissioni di merito o in quella del Bilancio. Tutti i partiti si stanno dando da fare a suon di emendamenti.  Il  Pd  chiede interventi selettivi fino a settembre; LeU il blocco generalizzato fino ad ottobre (come rivendicano i sindacati, con la Cgil capofila). Il M5S  fa la somma di tutte le istanze in campo: la proroga della cig Covid gratuita fino a inizio settembre, agganciata al divieto di licenziare.

Poi la Lega ripete che bisogna sostenere le aziende in difficoltà, aiutandole a non licenziare. Forza Italia e Italia Viva sono contrari a una proroga del blocco (ovvero condividono –se abbiamo ben compreso – la mediazione del premier. Andrea Orlando, il ministro che ha sparigliato il gioco,   si dichiara sostenitore dello sblocco selettivo dei licenziamenti, e promette una riforma sollecita  e riparatrice degli ammortizzatori sociali. Sembra che si realizzi un’ampia convergenza (questa è la logica della selettività degli interventi) a prorogare il blocco nei settori in difficoltà, senza chiarire il perché sulla base di concreti dati di fatto. I settori in difficoltà (in sostanza i servizi privati) sono già tutelati, in quanto il blocco scadrà il 1° novembre.

Poi logica vorrebbe che le imprese in crisi possono risanarsi riorganizzandosi e ristrutturando a partire dall’adeguamento degli organici. Non si vede quale prospettiva possa avere un’azienda nel proseguire nel suo cammino incerto, portandosi appresso un personale in eccedenza che grave come un grande punto interrogativo sul suo futuro. 

Ma quanti sarebbero i lavoratori licenziati? Centinaia di migliaia? Ma non scherziamo. Teniamo conto piuttosto dei quasi 900mila posti di lavoro perduti, spesso in termini di mancate assunzioni proprio per l’incertezza in cui versano le aziende per quanto riguarda la principale risorsa necessaria a ‘’far girare’’ le macchine negli opifici. Diciamoci la verità: non è facile avere delle certezze. L’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) ha stimato che gli esuberi saranno circa 70mila. Ma la confusione regna sotto il cielo.

Da un’indagine della Federmeccanica risulta che il 56% delle imprese non riesce a trovare sul mercato la manodopera che servirebbe.  La stessa lamentela proviene dalla capitale mondiale del turismo: quella Romagna solatia a cui manca il personale per aprire la stagione, dal momento che l’arrivo degli stranieri –che garantivano una certa presenza – oggi è divenuto più complicato in seguito alle restrizioni di carattere sanitario. Continuano a imperversare le indagini Excelsior che danno conto delle assunzioni che sarebbero possibili se si trovassero le professionalità richieste. Il guaio è che siamo stati capaci di combinare insieme un alto livello di disoccupazione e un  ancora più elevato tasso di neet (coloro che restano inattivi su tutti i possibili impegni) e una crisi dell’offerta di lavoro. Varrebbe la pena di sintetizzare così la vicenda: fabbriche vuote e persone in cig o sedute sul divano oppure davanti agli sportelli del reddito di cittadinanza.

E le politiche attive del lavoro? Si prega di ripassare domani (ovvero nel 2023): oggi ci occupiamo di cig e divieto di licenziamenti. Nell’ambito del PNRR, le risorse relative alla Missione 5 “Inclusione e coesione” sono pari a 19,81 miliardi di euro, così suddivisi tra le tre componenti:

  • – 6,66 miliardi alle Politiche per il lavoro;
  • – 11,17 miliardi a Infrastrutture sociali, famiglie, comunità e terzo settore;
  • – 1,98 miliardi a Interventi speciali di coesione territoriale.

A tali risorse vanno aggiunte quelle rese disponibili dal REACT-EU (7,25 miliardi) e quelle previste dalla programmazione nazionale aggiuntiva (2,56 miliardi), per un totale complessivo per la Missione 5 pari a 29,62 miliardi.

In particolare, per le politiche attive del lavoro, il Piano nazionale di ripresa e resilienza riserva 4,4 miliardi per il triennio 2021-2023, attraverso due linee di intervento strategiche:

  1. adozione, d’intesa con le Regioni, del Programma Nazionale per la Garanzia Occupabilità dei Lavoratori (GOL), quale programma nazionale di presa in carico, erogazione di servizi specifici e progettazione professionale personalizzata;
  2. adozione del Piano Nazionale Nuove Competenze, promosso dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali in collaborazione con l’ANPAL e d’intesa con le Regioni, con l’obiettivo di riorganizzare la formazione dei lavoratori in transizione e disoccupati.

Nel campo delle politiche attive – sottolinea il RCFP 2021 – l’Italia registra ritardi notevoli, spesso evidenziati dalla Commissione europea, nelle sue Raccomandazioni, e dagli altri organismi internazionali, tra cui, in particolare, l’Ocse. Proprio le informazioni raccolte da tale organizzazione, congiuntamente con Eurostat, confermano che la pandemia ha trovato la struttura della spesa sociale del nostro Paese inadeguata a fronteggiare con la necessaria forza i rischi della disoccupazione.

Secondo i dati OCSE, che evidenziano la spesa pubblica complessiva distribuita per programmi in materia di lavoro ( nel 2018 ultimo dato disponibile) la spesa per politiche attive si è complessivamente cifrata nello 0,42 per cento del Pil in Italia a fronte dello 0,68 in Germania, dello 0,75 in Francia, dello 0,71 in Spagna (e con la media Ocse allo 0,48 per cento). Rispetto al 2015, l’anno di entrata in vigore del Jobs Act, il 2018 ha fatto segnare un leggero arretramento (dallo 0,49 allo 0,42 per cento). Di tale percentuale, lo 0,24 per cento è rappresentato da incentivi all’occupazione, nella specie all’assunzione; lo 0,11 per cento riguarda la formazione, lo 0,10 l’apprendistato e soltanto lo 0,06 per cento è relativo ai servizi pubblici per l’impiego. Di contro, la Germania (con una spesa pari allo 0,68 per cento del Pil), dedica ai servizi pubblici per l’impiego lo 0,43 per cento, lo 0,18 alla formazione e solo lo 0,02 per cento agli incentivi all’occupazione.

La spesa della Francia (0,75 per cento del Pil) è suddivisa in massima parte tra i servizi pubblici per l’impiego (0,24 per cento), la formazione (0,25 per cento), la creazione diretta di posti di lavoro (0,11 per cento), mentre gli incentivi all’occupazione rappresentano lo 0,03 per cento della spesa. La Spagna spende in politiche attive lo 0,71 per cento del Pil, così suddiviso: 0,15 per cento ai servizi pubblici per l’impiego; 0,13 per cento per start-up innovative; 0,12 per cento per creazione diretta di posti di lavoro; 0,11 per cento per lavoro protetto e assistito e riabilitazione; 0,11 per cento per formazione; 0,08 per cento per incentivi all’occupazione.


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Alessandro Chiappetta

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