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Comunque vada a finire il tormentone del blocco dei licenziamenti, è chiaro che ormai è divenuto una questione di principio. I sindacati avevano ottenuto un (imprevisto?) “spariglio’’ delle scadenze ad opera del ministro Orlando e non accettano di darla vinta – semel in anno – a Confindustria.
Fonti di Palazzo Chigi raccontano che Draghi avrebbe incaricato un suo stretto collaboratore di elaborare un’ampia nota sul tema corredata di tutte le possibili implicazioni e conseguenze.
Sarebbe comunque presumibile che, anche a fronte di un’ulteriore mediazione, il blocco abbia ormai, se non le ore né le settimane, i mesi contati.
LO SCENARIO
È in atto un tentativo disonesto da parte dei sindacati di drammatizzare gli effetti del ritorno alla normalità nelle aziende italiane, dopo il lungo periodo di divieto di licenziamenti individuali per motivi oggettivi e collettivi per riduzione di personale.
Un blocco, peraltro, più sbandierato che operativo, in considerazione del fatto che – licenziati o non assunti – vi sono stati, nel 2020, più di 500mila lavoratori dipendenti in meno rispetto all’anno precedente (in proposito, Francesco Seghezzi ha parlato di licenziamenti sommersi).
È opportuno allora spiegare ciò che potrebbe succedere – rebus sic stantibus – dal 1° luglio nelle aziende che, rinunciando alla gratuità dell’utilizzo della cig, riacquisterebbero la facoltà di licenziare. Le aziende che rientrano in questa fascia appartengono in prevalenza all’industria manifatturiera e delle costruzioni.
Nell’edilizia è necessario affrontare la questione specifica: la manodopera è assunta dall’apertura alla fine del cantiere, quando viene normalmente risolto il rapporto di lavoro. Da decenni esiste la cosiddetta Cassa edile che ha il compito di liquidare in un’unica soluzione gli spezzoni del tfr e della XIII mensilità, in modo di evitare che queste erogazioni siano date, per ratei, alla fine di ciascun rapporto di lavoro.
Nell’industria e nei settori collegati che dispongono degli ammortizzatori sociali ordinari e straordinari previsti sia in costanza che a conclusione di rapporto di lavoro (e che sono identificati da questa caratteristica) le aziende che hanno un esubero di manodopera ora accampata in cig da Covid-19, devono seguire una procedura scadenzata nei tempi.
IL COINVOLGIMENTO SINDACALE
Proprio per la diversa rilevanza “sociale” dei licenziamenti collettivi, il legislatore ne detta una disciplina fortemente divaricata rispetto alla fattispecie del recesso individuale (comunque azionabile in giudizio).
L’accento viene posto sul coinvolgimento della parte sindacale e, più in generale, sulla “procedimentalizzazione” del potere di recesso.
In altri termini, si vuole che il datore di lavoro deciso a licenziare collettivamente i propri dipendenti debba seguire un iter estremamente articolato, nell’ambito del quale spicca il coinvolgimento dei soggetti portatori degli interessi opposti in gioco e il filtro preventivo dell’intervento della Cigs.
In sostanza si apre un negoziato motivato e riferito a un numero di lavoratori anonimi fino alla fine della procedura, conclusa la quale, con un accordo o un mancato accordo, l’azienda può chiudere l’operazione secondo una gerarchia di criteri previsti dalla legge.
Durante il negoziato subentra l’esame degli strumenti messi a disposizione dal legislatore per la tutela dei lavoratori licenziati. È previsto un istituto specifico: la Naspi, erogata per assicurare un reddito, per un periodo determinato, a chi perde il lavoro.
I PENSIONAMENTI ANTICIPATI
Poi sono previste norme che accompagnano i lavoratori al pensionamento anticipato. Lo scivolo pensionistico è inerente a un cosiddetto contratto di espansione e consente a un’impresa (il decreto Sostegni bis riduce il limite ad meno 100 dipendenti) di mandare in pensione i dipendenti stessi che si trovano a non più di cinque anni dall’età della pensione di vecchiaia o della pensione anticipata, avendo regolarmente maturato il requisito contributivo minimo richiesto.
Ovviamente, la società non può decidere in maniera unilaterale il pensionamento del proprio dipendente, ma deve ricevere sempre il consenso da parte del diretto interessato. Durante il periodo dello scivolo pensionistico, il datore di lavoro è chiamato a versare al dipendente un’indennità mensile che deve essere commisurata al trattamento pensionistico maturato al momento della cessazione del rapporto di lavoro.
Inoltre, se il titolare dell’azienda deve versare anche i contributi previdenziali nell’eventualità che la prima decorrenza utile della pensione sia quella prevista dal pensionamento anticipato.
Lo Stato viene incontro al datore di lavoro soltanto per un massimo di 24 mesi, vale a dire contribuendo al 100% alla copertura della Naspi: una volta scaduti i due anni, il versamento del trattamento economico da destinare al lavoratore è totalmente a carico dell’impresa.
È altresì utilizzabile il pacchetto Ape (nelle tipologie di sociale e aziendale). L’Ape sociale consiste in una indennità, corrisposta, a carico dello Stato, fino al conseguimento dei requisiti pensionistici, a favore di soggetti che si trovino in particolari condizioni di disagio e difficoltà occupazionali o familiari (tra cui primeggia lo stato di disoccupazione) facendo valere 63 anni di età e – a seconda dei casi – 36 o 30 anni di versamenti contributivi.
GLI ALTRI STRUMENTI
L’Ape aziendale ha più o meno le stesse caratteristiche del contratto di espansione. Per i cosiddetti “precoci” (che hanno iniziato a lavorare prima dei 19 anni) è definita alle stesse condizioni precedenti, in modo strutturale, una possibile uscita a quota 41 anni di contribuzione. Certo, queste misure hanno condizionalità ancorché molto ampie. Ma rispondono a criteri di equità e di tutela per coloro che hanno dei disagi e dei problemi effettivi.
Vi è poi la gamma dei contratti di solidarietà che intervengono, però, attraverso riduzioni di orario e di retribuzione, in costanza di rapporto di lavoro, secondo criteri distributivi tra tutti i dipendenti, allo scopo di scongiurare gli esuberi.
Occorre poi vedere, quando il governo si occuperà di pensioni, se ancora una volta – oltre a quanto già segnalato – la previdenza verrà chiamata a venire in soccorso dell’occupazione.
Già negli anni ’80 del secolo scorso la ristrutturazione di importanti settori produttivi fu messa a carico del sistema pensionistico attraverso i prepensionamenti (circa 400mila per un costo di 50mila miliardi di lire) il cui onere fa parte dei trasferimenti ordinari dal bilancio dello Stato a quello dell’Inps.
Questa pratica è stata ridimensionata in seguito, ma si sono sempre trovate delle scappatoie come, ad esempio, l’anticipo del pensionamento per i lavoratori adibiti a mansioni che comportavano il contatto con l’amianto, a prescindere dalla contrazione del mesotelioma.
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