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Questione femminile e questione meridionale, insieme, possono spiegare molto dell’occupazione nel nostro Paese. Soprattutto in tempi di Recovery Plan e di continui aggiornamenti sulle ripartizioni a ristoro ed a sostegno delle categorie e dei set-tori più duramente colpiti dalla pandemia. I quali mostrano sempre di più anche la debolezza di scelte regionali frammentarie ed autoreferenziali.
La lettura “a sistema” del mondo occupazionale femminile e di quello del Mezzo-giorno consente infatti di tracciare un quadro dell’andamento dei posti di lavoro e della destinazione di risorse pubbliche non disgiunto dall’offerta dei servizi ad imprese e cittadini, e quindi dalla effettiva capacità lavorativa e dallo sviluppo dei territori.
Il tutto secondo un’osservazione oggettiva dei numeri che, oltre a restituire gli effetti della spesa pubblica sul reddito pro-capite e sui livelli essenziali delle prestazioni, può suggerire quali ostacoli rimuovere e quali opportunità cogliere a livello regionale per riportare l’intero Paese – e non solo il Nord – nelle medie europee.
In altre parole, un’analisi che, spacchettando il dato statistico nazionale, aiuti a capi-re perché proprio ciò di cui il Sud è carente – servizi all’infanzia, mense, tempo pie-no, trasporto locale, assistenza territoriale – contribuisca a penalizzare fortemente l’entrata, la permanenza e l’avanzamento delle donne nel mondo del lavoro. Fattori – com’era prevedibile – che per aver condannato a povertà, arretratezza e spopola-mento sistematici quasi esclusivamente il Mezzogiorno, iniziano a registrare ricadute a macchia di leopardo sempre più frequenti ed irreversibili anche in parti del territorio nazionale ritenute finora al sicuro.
SERVIZI, CONCILIAZIONE FAMIGLIA/LAVORO E PRECARIATO
Se i dati Istat 2020 hanno messo in evidenza come l’emergenza sanitaria abbia colpito soprattutto le donne, l’elaborazione della Fondazione dei Consulenti del Lavoro ha calcolato – tra secondo trimestre 2019 e 2020 – 470 mila occupate in meno, con un calo nell’anno del 4,7%. Su 100 posti di lavoro persi (in tutto 841 mila), quelli femminili rappresentano il 55,9%; a fronte della maggior tenuta dell’occupazione maschile, che ha registrato una diminuzione del 2,7% (371 mila occupati).
Le lavoratrici a termine ed autonome hanno risentito, ovviamente, delle perdite maggiori, soprattutto nel sistema ricettivo e ristorativo: “L’elevata incidenza delle donne nei settori che più sono stati interessati dalla crisi – si legge – ha contributo in modo de-terminante a produrre un saldo così negativo”.
Ciò che nell’indagine viene più volte sottolineato è, d’altra parte, l’impegno quasi del tutto femminile di accudimento dei figli e della famiglia in generale: se a causa della pandemia, con la chiusura delle scuole e dei centri di assistenza diurni, la presa in carico del nucleo familiare da parte delle donne ha reso impossibile per molte di loro la prosecuzione dell’attività lavorativa, l’impossibilità di conciliare lavoro e famiglia rappresenta da sempre – strettamente collegata alla mancanza di servizi pubblici – il principale ostacolo all’occupazione, all’avanzamento ed alla carriere femminili.
Soprattutto nelle regioni del Sud, dove l’offerta di asili nido, mense e presidi per la disabilità registrano le percentuali più basse di tutto territorio nazionale. Non a caso, l’Italia è il Paese europeo dove si registra il più alto tasso di abbandono del posto di lavoro per esigenze di cura famigliare (non lavora per tale motivo il 13,3% delle donne italiane, contro l’8,2% della media europea) e dove si registrano i livelli di natalità più bassi.
Ancora. La tipologia dei rapporti lavorativi maggiormente a rischio e letteralmente falcidiati dal lockdown – lavoro flessibile, part time, a termine – rappresentano una prerogativa femminile e meridionale insieme. Secondo le stime Svimez di fine 2020, è nel Mezzogiorno che si conferma la cronica precarietà occupazionale femminile, con un quarto delle donne dipendenti che ha un con contratto a termine da almeno cinque anni, senza alcuna possibilità dunque di trasformazione, a fronte del 13-14% del Centro Nord. Così come è al Sud che resistono, specie per le donne, le retribuzioni più basse. Ed è sempre al Sud che il calo dell’occupazione femminile in professioni altamente qualificate ha registrato tra il 2008 ed il 2019 una percentuale pari a -16,2%, quattro volte quella del Centro-Nord (-4%) e più del doppio della media nazionale (-7,1%).
Se il part time – lo strumento che maggiormente consente di conciliare il lavoro con i carichi familiari – riguarda in generale quasi il 40% delle mamme lavoratrici, secondo i Consulenti del lavoro “l’emergenzialità, che sta assumendo e avrà sempre più la dimensione della difficile conciliazione vita-lavoro per tante donne, rappresenta un rischio altissimo per il mantenimento dei livelli occupazionali femminili”.
Così come a renderci un unicum nel panorama europeo, con una perdita di lavoratrici doppia rispetto alla media europea, sono fattori che non possono non ricondurci ancora una volta al Mezzogiorno: “Il ritardo storico nell’accesso al lavoro da parte delle donne, l’insufficienza dei servizi per l’infanzia e le persone che necessitano di assistenza, il radicamento che ancora esiste in molte aree del Paese di un atteggiamento culturale non sempre favorevole alla donna che lavora. In ultimo, la carenza di opportunità lavorative”.
Ecco perché un’inversione di tendenza riguardo la partecipazione delle donne al mondo del lavoro non può prescindere – oltre che da investimenti diffusi e da sostegni monetari molto più cospicui per i figli a carico – dal “potenziamento dell’offerta e dell’accessibilità ai servizi che favoriscono la conciliazione lavoro-famiglia, dagli asili nido ai servizi di cura per la terza età che rappresenta poi un obiettivo da sempre individuato prioritario, ma ancora lontano dall’essere raggiunto”. Soprattutto in regioni come Calabria, Campani, Puglia e Basilicata.
OCCUPAZIONE FEMMINILE: IL “CASO SANITÀ”
La sanità, secondo un’altra indagine pubblicata dalla Fondazione Consulenti del Lavoro, è il comparto che ha registrato negli ultimi dieci anni un notevole incremento di presenze femminili. Una crescita, in termini assoluti, del tutto positiva, che ha scontato però le solite gravi eccezioni legate alle disparità territoriali, sia in termini di unità, che di tipologia di rapporto di lavoro. Disparità da riportare ancora una volta alla cronica insufficienza di servizi all’infanzia, i soli come si è visto in grado di assicurare, oltre che un percorso formativo completo sin dai primi anni di vita, anche l’accudimento necessario a garantire alle donne ed alle madri la partecipazione effettiva al mondo del lavoro, sia in termini di occupazione che di carriera.
In generale, l’emergenza sanitaria legata al Covid ha fatto esplodere, rispetto al nostro Servizio Sanitario Nazionale, fragilità ben più datate. Prima fra tutte, quella legata alla contrazione del personale medico ed infermieristico, che ha finito per provocare a sua volta la concentrazione di un carico di lavoro praticamente insostenibile su un numero sempre più esiguo di lavoratori, per giunta sempre più anziani (il 28,5% dei medici in forza nel SSN ha 60 anni e più) e sempre meno in grado – è il caso dell’alta percentuale di medici ed infermieri donne – di conciliare il carico familiare e professionale. Il tutto con una forbice territoriale ancora una volta impressionante, tenuto conto che le regioni del Sud sono state quelle maggiormente interessate dai vincoli posti dai piani di rientro.
Secondo l’OCSE, l’Italia si trova infatti a metà strada – dopo Germania, Svezia, Danimarca, Spagna, ma prima di Francia, Regno Unito, Stati Uniti – per diffusione di me-dici sulla popolazione e aggrava il suo deficit sul fronte del personale infermieristico, visto che può contare su poco più di 6,7 infermieri contro le 13,2 della Germania, le 11,9 degli Stati Uniti, le 10,8 della Francia e le 7,8 del Regno Unito. Ma se nel 2018, secondo i dati del Conto Annuale della Ragioneria dello Stato, risultavano in forza nelle strutture del SSN 106.475 medici e 267.523 infermieri, l’analisi regionale elaborata dalla Fondazione Consulenti del Lavoro su dati della Ragioneria dello Stato-MEF, Conto Annuale e Istat (novembre del 2020), pone in risalto forti diseguaglianze regionali.
Con riferimento alla presenza di infermieri nelle strutture pubbliche – settore nel quale le donne madri rappresentano ben il 68% del totale – mostra, a fronte di una media di 44 unità ogni 10mila abitanti, 55 figure nel Nord Est, 44 al Nord Ovest e 45 al Centro. Al Sud il valore scende a 37, con la forte variabilità tra 65 di Liguria e Friuli-Venezia Giulia e 31 della Campania. Anche per quanto riguarda il personale medico, seppure in questo caso non si registrino significative differenze per macroarea, le situazioni regionali restano comunque quelle più articolate, variando da 25 medici ogni 10mila abitanti in Val d’Aosta e Sardegna ai 13 del Lazio.
L’indagine mette in luce come la drastica riduzione dell’organico sanitario ed il blocco del turn over in svariate aree del Paese, accompagnati al deterioramento diffuso delle condizioni di lavoro, hanno finito per colpire proprio le regioni che presentano maggiori inefficienze. E così, se dal 2008 al 2018 il personale medico si è ridotto del 5%, mentre quello infermieristico, già fortemente sottodimensionato, ha registrato una contrazione del 3%, al Sud il calo è stato ben più significativo: qui, si legge, “il personale medico si è ridotto del 10,6% e quello infermieristico del 6,8%. Campania, Calabria e Sicilia sono le regioni che hanno registrato i tagli più consistenti, in particolar modo di medici: -17,6% in Campania, -16,6% in Calabria e -13,2% in Sicilia. Del tutto particolare, poi, la situazione del Molise, dove si arriva al -32,3%”.
Viceversa, se al Nord Ovest gli organici sono rimasti praticamente invariati negli ultimi dieci anni, la media rispecchia andamenti differenziati, di calo per la Liguria ed il Piemonte, ma di crescita per Lombardia e Val d’Aosta. Nel Nord Est, poi, l’ultimo decennio è stato caratterizzato da un incremento sia del personale medico (1,8%) che infermieristico (1,4%).
Le diverse disponibilità del personale e la conseguente distribuzione disomogenea del carico di lavoro, oltre a generare una intollerabile diseguaglianza in termini di assistenza sanitaria al cittadino, ha fatto aumentare nell’ultimo anno lo stress aggiuntivo di medici e infermieri riguardo la propria sicurezza e quella del proprio nucleo familiare (a maggior rischio contagio) e l’effettiva conciliazione dei tempi vita/lavoro. Aspetto quest’ultimo a carico soprattutto delle donne, che rappresentano il 75% della professione infermieristica ed il 46,5% di quella medica, ma che si trova-no ad operare in un sistema pubblico “strutturato a misura d’uomo”.
E, per giunta, in un tessuto sociale del tutto carente soprattutto al Sud di servizi all’infanzia, centri diurni di assistenza e trasporto locale. Non poco, visto che su 100 donne occupate, tra medici e infermieri, ben il 68,6% hanno dei figli (il 31,7% con meno di 15 anni). Tra le dottoresse, la quota di occupate con figli con meno di 15 anni arriva al 34,4%, mentre tra le infermiere, malgrado le mamme siano più numerose, sono il 30,9% ad avere un’esigenza di accudimento di figli con meno di 15 anni.
Seppure con le solite, pesanti differenze tra Nord e Sud d’Italia, l’incremento della componente femminile in ambito sanitario è stata dunque costante: “Un universo – sottolinea la Fondazione Consulenti del Lavoro – che tra restrizioni, scuola a distanza, e carico di lavoro rischia non solo quotidianamente di contagiarsi, ma di venire sottoposto ad uno stress che potrebbe determinarne il burnout”.
Il risvolto – in un Paese alle prese con regioni del Sud quasi del tutto carenti di servizi all’infanzia e alla famiglia e dove i rapporti di lavoro al femminile sono quelli più caratterizzati da forme di part-time, flessibilità e precariato – è quello di una rinuncia lavorativa da parte delle donne sempre più frequente e generalizzato, sia in termini di unità occupate che di ridimensionamento dei livelli e delle mansioni. Tutto ciò, anche tra giovani laureate e giovanissime. “Un chiamarsi fuori” dal mondo del lavoro che la pandemia ha solo finito di aggravare e che, senza interventi urgenti e mirati, potrebbe privare il tessuto economico e sociale del nostro Paese di un potenziale – quello femminile – prezioso quanto sottoutilizzato, che rischia di disperdersi ulteriormente.
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