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Il progetto della rete unica è partito ieri ma chissà se, e quando, arriverà a destinazione. Serviranno almeno due o tre anni e, al termine di questo percorso non c’è nessuna garanzia che il perimetro dell’operazione non sarà cambiato. Il titolo Tim ieri ha fatto un piccolo passo indietro a 0,39 euro. Resta comunque il rialzo del 17% nell’ultimo mese. Un miglioramento che ha solo dimezzato le perdite dell’ultimo anno quando il titolo stava a 0,52 euro. Nel 2018, alla vigilia del nuovo ribaltone che ha insediato l’attuale consiglio d’amministrazione, era arrivato fino a 0,8 euro.

I primi elementi di perplessità sul progetto approvato ieri riguardano la presenza di Kkr, che prenderà il 35% di Fibercop spendendo 1,8 miliardi e, quella degli australiani di Macquarie che rileveranno il 50% di Open Fiber in mano a Enel con una valutazione non certo avara (7,7 miliardi come stima complessiva della società). L’uscita del gruppo elettrico non è certo un inno al progetto. Per la verità l’amministratore delegato Francesco Starace era stato abbastanza perplesso fin dal 2016 quando Renzi l’aveva chiamato a partecipare all’operazione Open Fiber. Forse Starace ricordava con preoccupazione la digressione che il gruppo, sotto la guida di Franco Tatò aveva fatto proprio nel campo delle tlc.

Un precedente non proprio di eccellenza. Dalle voci che circolarono allora in Enel non ci furono grandi entusiasmi per la nuova avventura nella fibra ottica. Tuttavia nessuno poteva dimenticare che l’azionista di maggioranza si chiama Cdp (e quindi il ministero dell’Economia) fra l’altro proprietaria dell’altro 50% di Open Fiber. Ma soprattutto è impossibile trascurare l’importanza e la capillarità delle rete elettrica. Dove passa un cavo della luce può transitare anche il collegamento internet senza bisogno di scavare altri buchi. Starace negli ultimi tempi non ha nascosto, insieme a Franco Bassanini, presidente di Open Fiber la sua ostilità verso la soluzione che oggi ha prevalso. Avrebbe preferito una rete aperta e indipendente a controllo pubblico. Il governo ha deciso diversamente ed Enel monetizza approfittando dell’offerta degli australiani. Dunque nell’operazione della rete unica ci saranno Macquarie e Kkr. Due grandi fondi internazionali in posizione di rilievo. Ma è proprio sicuro che questa sia la soluzione migliore? Nulla da dire ovviamente sull’importanza delle due presenze.

Casomai qualche perplessità sulla loro funzione. Il business della fibra ottica ha bisogno di investitori molto pazienti. Gli investimenti sono ingenti e i ritorni molto lenti. È vero che, probabilmente, la fibra ultraveloce italiana potrà partecipare al piano del Recovery Fund. Tuttavia non c’è niente di sicuro. In ogni caso, i consigli d’amministrazione di Kkr e Macquarie che hanno dei soci cui rispondere non possono esercitare l’arte della pazienza oltre una certa scadenza. Vorranno dei rendimenti rapidi e piuttosto elevati (per il fondo Usa si parla del 9%). E allora c’è da chiedersi se non è meglio fare appello ad investitori più pazienti e, soprattutto italiani. Per esempio qualche le casse di previdenza oppure qualche fondazione per alleggerire Cdp.

A questo bisogna aggiungere ancora un paio di considerazioni. Innanzitutto ricordare che azionista di maggioranza di Tim è la francese Vivendi. Il suo patron, Vincent Bollorè non ha avuto grandi soddisfazioni dalla campagna d’Italia. È sempre rimasto ai margini del sistema Generali, sta uscendo da Mediobanca dopo una lunga permanenza, su Mediaset è impegnato in un difficile sganciamento dopo aver tentato una scalata per costringere alla resa la famiglia Berlusconi. Sull’investimento Tim accusa perdite miliardarie. Da Parigi hanno dato il via libera al progetto della fibra ottica ma è facile immaginare che l’obiettivo sia solo quello di estrarre il maggior valore possibile dall’operazione e poi uscire limitando i danni. Infine Tim. Un tempo era un gioiello di caratura mondiale. Un quarto di secolo di privatizzazione l’hanno ridotta ad un gruppo in costante calo di redditività (il margine operativo è più che dimezzato rispetto ai giorni della privatizzazione) con molti debiti (26 miliardi) e personale in eccesso. La rete è il presidio più forte del suo patrimonio. Lo difenderà a tutti i costi come ha fatto finora. Non certo la premessa migliore per la futura collaborazione con altri partner.


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