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Riflettori puntati sul consiglio d’amministrazione di Tim del 31 agosto che dovrà deliberare sull’offerta del fondo Kkr per la costituzione di FiberCop. Gli americani avranno il 37,5% e Fastweb il 4,5%. È il primo passo per la costituzione di Net.co , la società per la banda ultralarga che Luigi Gubitosi sostiene di poter finanziare con le risorse di Tim. La combinazione con gli americani, per la quale si è mossa addirittura l’ambasciata Usa, ha ottenuto il via libera del ministro Gualtieri. Il futuro però resta incerto.

Per superare lo stallo Franco Bassanini, presidente di Open Fiber ieri ha rilanciato: «Con Tim o senza, occorre assicurare entro il 2022-2023 la rete unica di nuova generazione di cui il Paese ha bisogno». Significa chiamare a raccolta in Open Fiber tutti quelli che ci stanno a partire da Cdp ed Enel per poi coinvolgere altre telco: Vodafone, Wind Tre, Iliad, Tiscali, Sky, Sorgenia. In campo anche gli investitori infrastrutturali come gli australiani di Macquaire. Nella partita potrebbero entrare fondi pensione e casse di previdenza «per raccogliere le risorse necessarie per un piano di copertura integrale del territorio nazionale con la fibra, il 5G, l’edge cloud» dice Bassanini.

La questione è cruciale. L’Europa rischia, infatti, di restare indietro. La penetrazione della fibra in Corea è all’ 81,6%, in Giappone al 69,1%, in Cina al 61,6%, in USA al 14,5%. La media UE è del 13,9%, l’Italia è tra gli ultimi al 2,3% (dati Ftth Council). L’obiettivo per il prossimo decennio è per tutti il 100% o poco sotto. Per raggiungerlo, in Europa occorrerebbero 660 miliardi di investimenti. Al ritmo attuale, servirebbero 25 anni: troppi! Ed ecco perché dovunque si vede gran fervore di iniziative. In alcuni Paesi (Francia, Germania, Norvegia e Svezia), lo Stato è tutt’ora azionista di maggioranza degli ex monopolisti.

Questo rende tutto più facile anche se nel frattempo si sono fatti avanti possibili concorrenti come Siro in Irlanda, Cityfibre in Gran Bretagna, Deutsche Glasfaser in Germania, Gagnaveita Reykjavikur in Islanda. Il pallino però resta in mano ai governi. Lo stato francese è presente nell’azionariato di Orange con il 23,04%, tramite l’ Agence des participations de l’Etat e la Banque publique d’investissement (a sua volta partecipata al 50% da Caisse des Dépôts e al 50% dalla stessa Agence). Lo stato tedesco partecipa all’azionariato di Deutsche Telekom direttamente con il 14,5% e tramite KfW per un altro 17,4% (in totale 31,9%). Lo Stato svedese è presente con il 37,3% in Telia Sonera. Lo stato norvegese è presente in Telenor con il 54%.

In Spagna, Gran Bretagna e Italia invece la privatizzazione è stata totale e i problemi non sono mancati. Dinanzi ai giganteschi investimenti necessari per la rete ogni Paese ha reagito a modo suo. Londra ha utilizzato uno schema che probabilmente non dispiacerebbe a Luigi Gubitosi: ha aperto la rete ad altri investitori lasciando però la maggioranza a Bt.

La governance è stata costruita in maniera tale da garantire l’indipendenza della società. La Spagna ha adottato un modello ancora diverso. Telefonica ha investito massicciamente nella fibra che oggi raggiunge più del 80% del Paese. Ciò è anche dovuto al fatto che, nell’architettura della rete in rame di Telefonica, le abitazioni degli utenti finali erano direttamente collegate alle centrali telefoniche, senza lo snodo intermedio degli armadi.

Dunque Telefonica non poteva attestarsi, come gli altri, su una infrastruttura mista al fine di ritardare la svalutazione della rete in rame e limitare gli investimenti. Non a caso ha annunciato la copertura in fibra di tutto il territorio nazionale entro il 2020. Contemporaneamente spegnerà la rete in rame.


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