L'ex Ilva di Taranto
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IN QUESTI giorni si è parlato di una Caporetto per la madre di tutte le procure che negli ultimi decenni si sono qualificate – con grande sostegno massmediatico – come le benemerite guardiane dell’etica pubblica. Infatti, la procura di Brescia, competente per territorio, sta indagando due pubblici ministeri di Milano, Fabio De Pascale e Sergio Spadaro, coinvolti nel processo per corruzione internazionale Eni-Nigeria.
LA PREMEDITAZIONE
Secondo l’ipotesi investigativa, i due magistrati inquirenti avrebbero nascosto informazioni e prove favorevoli alla difesa dell’Eni. Un’operazione che non sarebbe neppure riuscita nell’intento, visto che tutti gli imputati sono stati assolti in giudizio «perché il fatto non sussiste». La manipolazione delle prove, ove venisse accertata, (siamo garantisti anche con i pm), sarebbe di una gravità eccezionale in sé. Ma lo sarebbe ancora di più per il danno provocato all’economia nazionale e alle relazioni internazionali dell’Italia.
Lungi da noi l’idea che il management delle multinazionali (la responsabilità penale è personale) non possa essere indagato. Esiste, però, una premeditazione nel costruire un procedimento senza prove solide (nel caso Eni-Nigeria si è arrivati al punto di attribuire alle parole un significato diverso da quello che risultava dalle verbalizzazioni); poi, quando ci si accorge che i principali testimoni d’accusa, Vincenzo Armanna e Piero Amara, sono persone non affidabili, si mettono a bagnomaria le indagini di un altro pm, Paolo Storari, il quale, ritenendo che i vertici della Procura di Milano, suo ufficio, stessero insabbiando le indagini sulle rivelazioni di Amara relative alla loggia massonica coperta, denominata Ungheria, per autotutelarsi si è rivolto a Piercamillo Davigo, consegnandogli gli atti, che il Sommo Inquisitore ha tenuto per sé (salvo, come ha confermato il presidente Nicola Morra, mostrarglieli nel ballatoio delle scale di Palazzo dei Marescialli) fino a quando non arrivarono ai quotidiani (trasmissione per la quale è indagata l’ex segretaria di Davigo al Csm).
Peraltro non è la prima volta che l’Eni viene coinvolto in un intrigo di corruzione internazionale, sulla base del presupposto che le somme erogate ai mediatori in realtà sono tangenti. Ovviamente anche in quel caso il fatto si rivelò insussistente. Forse sarebbe l’ora di chiedersi come si possono combinare affari in certi Paesi e magari ricordare come Enrico Mattei, partendo da un piccolo appezzamento di terreno dove il regime fascista cercava in via sperimentale il gas in una logica di autarchia, costruì una multinazionale dell’energia tra le prime al mondo.
Si diceva a quel tempo che Mattei non esitasse a fornire armi al Fln algerino in lotta per l’indipendenza. Ed è a questo punto che ci permettiamo un volo pindarico sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, su cui la procura di Palermo continua a essere molto attenta. Mi sono sempre chiesto a cosa servirebbe un servizio segreto se non per gestire operazioni che per definizione e necessità non possono essere conclamate e trasparenti e spesso sono costrette a viaggiare borderline rispetto alle stesse norme di legge.
Quando Joe Biden ha assegnato 90 giorni alle agenzie di intelligence Usa per trovare elementi probanti delle origini “cinesi’’ del virus maledetto, pensiamo che la giustizia a stelle e a strisce troverebbe da ridire se la Cia distribuisse qualche mazzetta nell’Impero già celeste e ora rosso?
IL CASO TEMPA ROSSA
E come la mettiamo da noi con il caso “Tempa rossa’’? Se si considerano i dati tecnici, la Basilicata naviga su di un mare di idrocarburi. A regime, l’impianto – tra i più evoluti nel settore petrolifero – avrà una capacità produttiva giornaliera di circa 50mila barili di petrolio, 230mila metri cubi di gas naturale, 240 tonnellate di Gpl e 80 tonnellate di zolfo. Eppure – in questo caso il “saracino della giostra’’ era la Total – la procura di Potenza si è data molto da fare, peraltro con una lentezza che ha fatto scattare per quasi tutti gli imputati la prescrizione, per cui di questa vicenda rimane soltanto la campagna negativa del pregiudizio: sviluppo=corruzione.
Qualche cineamatore potrebbe andarsi a rivedere il film “I Basilischi’’ che Lina Wertmuller girò nel 1963 dedicandolo ai giovani di allora, residenti in Lucania. Ma la vicenda più eclatante fu quella degli elicotteri venduti all’India. Dopo la solita trafila giudiziaria furono assolti per insufficienza di prove, l’ex-direttore di Agusta Westland, Bruno Spagnolini, e l’ex-amministratore delegato Giuseppe Orsi per le presunte tangenti al maresciallo dell’aeronautica indiano Sashi Tyagi in cambio di una modifica alla gara d’appalto per la fornitura di 12 elicotteri Vip per il trasporto dei membri del governo del valore di 556 milioni di euro.
Ovviamente lo scandalo ebbe un risalto internazionale e il governo indiano annullò la commessa.
LA VICENDA ILVA
Poi troneggia il caso ex Ilva. Qualcuno si è preso la briga di definire “storica’’ la sentenza di primo grado della Corte di Assise di Taranto che ha comminato condanne “esemplari’’ a tutti gli imputati. Quando nel 1995 la famiglia Riva venne invitata ad acquistare l’ex Ilva, lo stabilimento allora pubblico perdeva 4 miliardi l’anno. La nuova proprietà dal 1995 al 2012 ha effettuato investimenti per 4,5 miliardi di euro, di cui 1,2 per misure di carattere ambientale.
Queste operazioni sono ribadite in una sentenza del 2019 del Tribunale di Milano, confermata in appello, nel procedimento per il reato di bancarotta fraudolenta. Nessuno è mai stato in grado di provare che l’ex Ilva abbia violato le leggi all’epoca vigenti. Il pm ha detto esplicitamente che la questione era irrilevante: «Ma come facciamo a rispondere alla mamma che ha perso il bambino che i limiti erano in regola?».
Sono proprio le condanne inflitte all’ex governatore della Puglia e al professor Giorgio Assennato, ex direttore dell’Agenzia regionale dell’ambiente, a rendere palese l’arbitrio che ha sorretto le indagini e la sentenza della Corte. Nichi Vendola, condannato a 3 anni e 6 mesi di reclusione, avrebbe concusso in modo implicito Assennato perché moderasse la valutazione d’impatto ambientale dello stabilimento; ma anche il direttore è stato condannato a 2 anni per favoreggiamento perché ha negato di aver ricevuto minacce da Vendola.
Come ha scritto Anna Digiorgio in un’accurata ricostruzione del caso ex Ilva, su Il Foglio, è la logica del profitto che per l’accusa è divenuta «allo stesso tempo, reo, movente, arma del delitto e reato». Ma la verità di questi nove anni di calvario, di “caccia allo stabilimento”, la magistratura tarantina (che peraltro ha qualche problema con la giustizia per le incaute frequentazioni con l’avvocato Amara, colui che fu arruolato a Milano per sostenere le accuse all’Eni) non si è limitata a esigere misure di risanamento più importanti e in tempi più rapidi. No. Ha impedito che si procedesse in questa direzione e si trovassero soluzioni; è intervenuta senza scrupoli per far saltare ogni programma di risanamento.
C’è stato persino un momento in cui ad Arcelor Mittal venne ordinato da due tribunali diversi di spegnere e contemporaneamente di lasciare in funzione l’altoforno più importante dello stabilimento. In sostanza, di rispondere penalmente sia della continuità del funzionamento che della chiusura degli impianti.
Ora, dopo il commissariamento/esproprio del 2012, siamo arrivati alla confisca degli impianti in attesa del giudizio del Consiglio di Stato. Pare però che il governo non intenda consentire lo smantellamento dell’Acciaieria d’Italia, come si chiama adesso, proprio nel momento in cui il sistema produttivo ha bisogno di acciaio per risollevare la testa dopo la crisi.
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