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Enrico Letta e Giuseppe Conte

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TANTO per confermare quel che avevamo già avuto occasione di scrivere, anche nel centrosinistra i due maggiori partiti vogliono rappresentare i moderati (tace LeU, ma si può capire: se anche loro volessero agire per essi non ci sarebbe proprio più religione). L’ha detto Di Maio che a rappresentare i moderati che non difende nessuno ci penserà M5S, più prudentemente Letta ha assicurato che il PD punta a mettere tutti insieme e non vuole escludere nessuno, Conte si è addirittura buttato a sostenere che il suo nuovo partito punta ai moderati proprio perché è diverso dal PD (guarda te …).

Nonostante questo, quale sia la fisionomia che i due partiti vogliono darsi risulta abbastanza difficile da capire. Giuseppe Conte fa un suo gioco, ma Grillo non sta lavorando per sostenerlo, a meno di non voler credere alla vecchia tattica per cui uno si copre al centro e l’altro a sinistra. Lasciamo perdere la storiella della “rivoluzione gentile” che l’ex premier vorrebbe realizzare coi Cinque Stelle, perché sono invenzioni di slogan che piacciono molto ai comunicatori, ma che non spiegano niente.

Il problema per Conte è come tenere insieme almeno tre componenti: la vecchia retorica anti sistema a cui non saprebbe cosa sostituire con in più il problema che su quella base il grillismo ha fatto passare misure poco sensate e ha piazzato personaggi non molto credibili; una componente ormai di professionismo politico che non può licenziare a cuor leggero, non almeno finché non sarà finita la legislatura e si farà la conta del consenso che rimane; un rapporto politico che lo tenga nelle stanze del potere e che non può essere altro che col PD, perché il centrodestra ritiene di poter fare tranquillamente a meno di M5S.

Una vecchia battuta sul cancelliere tedesco Otto von Bismarck diceva che la sua politica era quella di un giocoliere che si esibiva con tre palle di cui una doveva sempre rimanere in aria. Crediamo potrebbe essere appropriata anche per Conte che peraltro come giocoliere è anche abbastanza bravo. Fuor di metafora, la sua politica funzionerà sino a quando potrà essere determinante o per i numeri di cui dispone ora in parlamento o per la sua insostituibilità per tenere in piedi una coalizione alternativa al centrodestra.

Quando il problema diventa quello del tenere lontano dal potere un avversario molto più strutturato di te, non si va per il sottile nel costruire alleanze: quel che è successo ora in Israele è lì a dimostrarlo. Al momento la palla che Conte deve tenere per aria si chiama elezioni amministrative. Infatti deve contemporaneamente registrare con esse la solida alleanza, possibilmente vincente, col PD, e al tempo stesso gestire tutti i casi in cui i Cinque Stelle locali col PD l’alleanza non la fanno o il PD non vuol farla con loro. Al momento il caso emblematico è Torino dove alle primarie non solo ha vinto il candidato più duramente contrario al grillismo, ma secondo ad una incollatura è arrivato un “civico” poco tenero con loro, mentre il candidato su cui puntavano è finito malamente terzo.

L’ex premier prova a far dimenticare l’episodio correndo a Napoli a sostenere il candidato comune trovato nella persona dell’ex ministro Manfredi. E’ una toppa che chiude malamente il buco torinese, non fosse altro perché non è frutto di una iniziativa politica pentastellata e perché, a parte l’incertezza di una competizione piuttosto difficile (c’è in campo anche Bassolino), si punta alla conquista di un comune più che disastrato dove non è detto che l’eletto si riveli, se non una seconda Raggi (ben diversa la statura di Manfredi), al dunque un secondo Marino.

Conte ha provato a infilarsi anche nella contesa bolognese esponendosi con una lettera al quotidiano locale a favore del candidato di una parte dominante della nomenklatura locale del PD, sostenuto peraltro anche da Letta e dal suo coté nazionale: una corsa a salire sul carro di una armata Brancaleone che mette insieme ambienti delle Coop, sardine, sinistra radicale, in un progetto che ha come obiettivo solo quello di mantenere al potere una certa rete di professionismo politico.

Sulla carta è una corsa a vincere facile, perché viene sbandierato che quel candidato avrebbe già il 60% dei consensi contro i 40% della sua avversaria, Isabella Conti, sindaco di un comune della cintura, ma la protervia (perché altro termine non si può usare) con cui Lepore e i suoi supporter giocano la partita fa pensare che la situazione possa non essere così tranquilla. E’ un’altra di quelle situazioni in cui ammesso che i Cinque Stelle potessero presentarsi come determinanti, non si sa poi cosa caverebbero in una coalizione costruita con la promessa di molteplici impegni a destra a manca. In tutta questa storia il PD sembra costantemente al rimorchio di qualcosa.

Letta è contento perché un sondaggio l’ha incoronato primo partito e sorvola sul fatto che per altri non è così. Continua a non impegnare il suo partito su una chiara agenda, avendo solo in mente l’aritmetica che somma i voti e di conseguenza non potendo liberarsi di una dipendenza comprensibile con l’addendo M5S. Non osa spingerlo a ridefinirsi una volta per tutte, sottovalutando che anche i Cinque Stelle non possono fare a meno del PD, né crede nella possibilità di riconquistare per sé i voti che stanno in quel paniere. Così finisce per rinverdire il berlinguerismo del vecchio PCI, quello che credeva di vincere trasformandosi in un partito radicale di massa. Allora non andò molto bene.


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