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Alain Delon, appena scomparso, si è trovato a rappresentare nel cinema, con il Gattopardo tra gli altri, le due facce della stessa medaglia del Sud


Un mito. Il più bello che sia mai nato. Un Tancredi indimenticabile nel Gattopardo ma anche un pugile deciso, Rocco Parondi, ispirato al potentino Mazzola, in Rocco e i suoi fratelli. Sabato ci sono stati i funerali di Alain Fabian Maurice Delon, che dalla vita aveva avuto già tutto e che da essa non voleva più nulla: “La vita non mi dà più molto. Ho conosciuto tutto, ho visto tutto. Ma soprattutto, odio questa epoca, la rigetto. So che lascerò questo mondo senza rimpianti”.
Per celebrare il grande attore la Rai ha riproposto nella fascia serale Il Gattopardo e nella fascia mattutina Rocco e i suoi fratelli, e anche questa scelta non è stata casuale. Il grande ascolto è nella fascia serale, ma il vero grande tema del Paese è quello di Rocco.

Alain si trova a rappresentare nel cinema, fra tanto altro, forse inconsapevolmente, anche due mondi. Due realtà diverse, due spaccati che si contrappongono.
Partire dal grande interprete per cercare di capire i due lati della medaglia di un Mezzogiorno non compiutamente compreso può essere utile.
La domanda è se il pessimismo epocale di don Fabrizio non sia stato funzionale al Partito Unico del Nord, che del Sud vuole dare l’immagine che Tomasi propone dell’Isola: “Non nego che alcuni siciliani, trasportati fuori, possano riuscire a svegliarsi. Ma devono partire molto giovani, a vent’anni è già tardi, la crosta si è formata».

Che addossa la responsabilità del fallimento della Sicilia, ma la metafora è valida per tutto il Sud, all’ignavia dei meridionali, che non vogliono essere svegliati dal sonno in una visione lombrosiana: “Da duemilacinquecento anni non siamo altro che una colonia. Oh, non lo dico per lagnarmi, è colpa nostra. Ma siamo molto stanchi, svuotati, spenti».
In tale autoflagellazione, con l’assunzione completa della colpa, si racchiude la motivazione di un Sud che non si ribella, malgrado una sanità inadeguata, una mobilità inesistente, una formazione che non prevede gli asili nido, né il tempo pieno, né una vera lotta alla dispersione scolastica.
“Il sonno, un lungo sonno è quello che i siciliani vogliono”. Quindi irredimibili e accidiosi, colpevoli di non darsi da fare: “Non lo dico per lagnarmi, è colpa nostra. Ma siamo stanchi, svuotati, spenti.”
E quando siamo tutti colpevoli alla fine non lo è nessuno. Si salva anche quella aristocrazia che pur di non perdere i propri privilegi ha lanciato i picciotti ad aiutare Garibaldi, tradendo un Regno che i piemontesi annessero, senza mai aver dichiarato guerra.

L’altra faccia è quel Rocco che viene strappato dalla sua terra e che la madre lucana, Rosaria Parondi, porta a Milano, dove abita il primogenito Vincenzo, con gli altri quattro figli maschi: Simone che comincia una carriera nella boxe, Rocco che fa il garzone in una stireria, Ciro che va a lavorare in fabbrica e Luca, il minore, che rimane a casa con la madre, sono la realizzazione plastica di un disagio che ha riguardato tutti i meridionali, costretti a vivere nelle periferie delle grandi aggregazioni urbane, in particolare di Torino e di Milano.
Trasferiti spesso dall’interno del Sud, da una realtà contadina arretrata, vanno verso un loro disfacimento intimo. Dopo aver perso i principi e i valori che avevano avuto, strappati dai loro territori, gli emigranti sembrano dei fantasmi che non riescono a toccare terra. Disprezzati e respinti da una realtà, anche un po’ razzista, che li sottopone a mortificazioni indicibili – nessuno può dimenticare le scritte «non si affitta a meridionali» -, perdono ogni punto di riferimento.
Non sanno più qual è la loro identità, se quella di contadini trasferiti provvisoriamente o di migranti in cerca di fortuna, marginalizzati e derisi.

Anche i loro bambini, che vanno a scuola in classi dove sono minoritari e che parlano in famiglia e quindi anche a scuola un linguaggio incomprensibile da chi quelle aree le abita da sempre, si ritrovano con difficoltà insormontabili e spesso espulsi da una scuola che non li accoglie. È così la cosa più facile è che delinquano, in ogni caso, che si perdano.
Tra le difficoltà di adattamento in una nuova realtà sociale, la condizione di chi si sente straniero in una città ostile, tra sogni di ritorno alla terra natia e voglia di integrazione, pagano un prezzo altissimo di disadattamento. Crollano i valori che hanno sempre avuto come base del loro pensiero, del loro comportamento, senza acquisirne altri che stentano a diventare loro patrimonio, in un tentativo di omologarsi a una realtà per loro incomprensibile, con la perdita di autostima che li porta a ritenersi inferiori.

A stento riescono a guadagnare quello che serve per sopravvivere, in una realtà climaticamente diversa dalla loro, dove non hanno amici, parenti, legami, radici, e dove vengono disprezzati dalla stessa classe operaia del Nord, che riversa su di loro tutte le frustrazioni subite. E se qualcuno riusciva a omologarsi e a trovare la loro stima il massimo di complimenti che veniva rivolto era: «Non sembri nemmeno meridionale».
Extracomunitari nella propria Nazione, a loro non viene riconosciuto il diritto di vivere alla pari nella terra per la quale i loro avi erano morti. Né potevano partecipare alla ricchezza che contribuivano a formare, e acquisivano persino il dialetto lombardo-piemontese con la speranza, vana, di non essere riconosciuti.

Qual è oggi il risultato per gli sforzi compiuti e il prezzo pagato dal Sud per fare grande questo Paese? Movimenti come quelli della Lega Nord che pensano di poter correre più velocemente tagliando lo stivale, facendolo affondare da solo. Forse ripercorrere la lunga marcia che ha portato ad essere la settima potenza industriale farebbe bene a tutti. Non dimenticare il passato serve a mettere le basi per costruire il futuro.


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