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Alcide De Gasperi

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Il Piano Marshall, anch’esso un recovery fund, presenta i prodromi del divario, come quello Nord-Sud italiano attuale


A settant’anni dalla scomparsa, la figura del trentino De Gasperi é viva e presente nel dibattito italiano. La frase pronunciata davanti ai grandi della terra, che avevano vinto la Seconda Guerra Mondiale, resterà impressa nel cuore e nella mente di molti: «Prendo la parola in questo consesso mondiale e sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me: è soprattutto la mia qualifica di ex nemico, che mi fa ritenere un imputato”.
Eppure malgrado questa difficilissima posizione De Gasperi riuscì a portare a casa risorse molto consistenti. Il Piano, anch’esso un Recovery Fund, è passato poi alla storia con il nome del Generale George Marshall, Capo di Stato Maggiore durante la guerra, uomo di fiducia di Franklin Delano Roosevelt e Segretario di Stato nell’amministrazione di Harry Truman.
I Paesi che ricevettero le quote più cospicue, superando i mille milioni di dollari, furono il Regno Unito (3.297 mln$), la Francia (2.296 mln$), l’Italia (1.204 mln$), i Paesi Bassi (1.128 mlns)» .

L’intervento statunitense durò dal 1947 al 1951. Il Piano Marshall e i prodromi del divario

Il Piano Marshall viene ancora ricordato per la sua dimensione quantitativa. Il suo importo, circa 13,2 miliardi di dollari, pari all’1,1% del Pil americano e al 2,7% dei 16 Paesi riceventi, era finanziato dagli USA, ma fu accettato sulla base di una campagna nella quale si sottolineava il nesso tra la sicurezza economica degli USA e quella dell’Europa occidentale. Si sottolineò il legame profondo tra le due culture ma anche tra le due economie.
Poi per il fatto che non si trattativa solo di prestiti agevolati, che poi gli Stati Uniti rinunciarono a farsi restituire, ma di beni e materie prime che i 16 Paesi incamerarono gratuitamente e poterono trasferire nel sistema produttivo, ma che costituirono un mercato di sbocco e un aiuto di Stato per le imprese statunitensi coinvolte.

In realtà si ripete, nel 1947, un approccio che sembrerebbe logico a prima vista: e cioè privilegiare l’esigenza di mettere le risorse dove possono rendere immediatamente di più. Già con l’Unità d’Italia, nel 1860, si approcciò il problema con la stessa logica. Il nuovo regno aveva bisogno di concentrare il proprio impegno nel sistema produttivo settentrionale, per cui bisognava dimenticare Pietrarsa e il sistema industriale esistente nel Sud e concentrare la produzione nelle realtà settentrionali.
Con il piano Marshall si ripete questo tipo di approccio, e a una strategia che prevedesse di far sviluppare tutti i territori se ne sostituì una che adottasse un puro calcolo di convenienza economica comparata.

IL DIVARIO NEL PIANO MARSHALL: CONCENTRAZIONE DI RISORSE AL NORD

Per cui si concentrarono le risorse nelle tre regioni del triangolo industriale (Piemonte, Lombardia e Liguria), sperando che l’effetto moltiplicatore sarebbe stato più rilevante rispetto a una dispersione di risorse in una realtà ampia, poco controllata, poco collegata, e nella quale ormai si partiva da zero.
Si pensò che i risultati attesi, in termini di maggior volume di produzione industriale e di maggiore occupazione, sarebbero stati alla fine molto più elevati.

Le risorse finanziarie messe a disposizione dagli Stati Uniti nei confronti dello Stato italiano, pari a 1.204 milioni di dollari, vennero perciò distribuite senza tenere assolutamente conto della problematica dei divari, al di fuori di una logica di programmazione, in quanto, per la politica italiana, la questione meridionale non era certamente una priorità. Non è un caso che a Palermo e a Napoli ancora ci siano segni della distruzione delle bombe alleate.
Gli altri Paesi europei usciti in ginocchio dalle distruzioni legate alla Seconda Guerra mondiale, svilupparono un diverso approccio che trovò nei loro piani una visione più nazionale.

I piani delle altre nazioni

La Gran Bretagna, con il suo “Libro bianco sull’occupazione”, la Francia con il suo “Piano sulla piena occupazione, l’aumento della produttività e l’innalzamento del tenore di vita della popolazione”, l’Olanda con il suo “Piano a lungo termine” e persino la Germania distrutta, con la sua “Politica programmata”, si posero l’obiettivo di un processo di ricostruzione globale a livello intersettoriale e territoriale, non tralasciando le realtà più deboli e periferiche. Collegando così, in modo coordinato, le risorse agli obiettivi ed evitando di concentrare gli investimenti solamente in determinate zone.
In realtà in Italia, al di là dei soggetti che gestirono le risorse nel 1860 e nel 1947 e oggi con il Pnrr, ancora in fase di attuazione, la logica sembra essere sempre la stessa.

E cioè quella che prevale e che ci dice che è più facile investire nelle realtà già pronte, invece che impiegare le risorse in quelle realtà a sviluppo ritardato, ma che di quegli investimenti avrebbero più bisogno.

SERVE UN SALTO EPOCALE MA L’ITALIA NON CE LA FA

Le affermazioni recenti di Luca Zaia e di Giuseppe Sala circa la possibilità di evitare di perdere le risorse provenienti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza nelle loro realtà, pronte con progetti esecutivi a impiegare i fondi, seguono una logica non nuova, che ha portato alla permanenza, dopo 164 anni, della questione meridionale.
Cambiare il paradigma, come ha fatto già l’Europa, che ha previsto una destinazione maggiore delle risorse in funzione della maggiore dimensione dei parametri che caratterizzano le realtà più povere, è un salto epocale che ancora il nostro Paese stenta a fare.

Nei fatti, l’algoritmo che è stato utilizzato per destinare le risorse ai singoli Paesi, e che prevedeva tre parametri di riferimento (tasso di disoccupazione, reddito pro capite e popolazione) non è stato utilizzato, come sarebbe stato logico, per distribuire le risorse tra le varie regioni.
Stabilendo un 40%, peraltro assolutamente teorico, di destinazione, che nei fatti, viste le dichiarazioni di Fitto, è facile non venga rispettato.

E che invece, d’altra parte, con l’approvazione dell’autonomia differenziata segue logiche separatiste nei fatti, che ci portano in un vicolo cieco, come Paese, ma anche come singole realtà regionali, che in teoria si volevano liberare dai vincoli di una palla al piede: non si capisce che invece quella “palla al piede” possiede il carburante necessario per far ripartire il Paese.
Il fatto che anche statisti della levatura di Alcide De Gasperi non siano riusciti a sottrarsi a una logica che prevede una locomotiva che tira e dei vagoni che seguono ci fa capire quanto sia difficile ribaltare un tale approccio.
Se non sono riusciti a farlo degli statisti che guardavano alle nuove generazioni, immaginate cosa possono fare dei politici che riescono a guardare, al massimo, alle prossime elezioni.


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