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Tema: come ridurre il numero delle Stazioni appaltanti, spendere in fretta e bene i soldi a disposizione senza incagliarsi nella giungla del localismo frammentando opere e risorse. Svolgimento: senza una riforma del Codice degli appalti il rischio di saltare su una mina e trasformare il più grande piano di rilancio messo in campo dal Dopoguerra rimane altissimo.
Si partirà dal punto più strategico del Recovery Plan per capire se e come potremo disincagliarci. Dalla materia alla quale siamo notoriamente più allergici, la più ostica per noi: la semplificazione dei contratti pubblici. Quelle riforme che nel Piano vengono definite “abilitanti” che possono dare una spinta al Paese e traghettarlo verso il raggiungimento dell’obiettivo.
LE NORME GIÀ ESISTONO
Il Piano ha previsto misure urgenti e misure a regime, come appunto l’eliminazione o la riforma del Codice dei contratti pubblici. Ha previsto le linee guida di una legge delega da approvare entro il 2021 affidando poi al governo l’esecuzione di un decreto legislativo che dovrebbe entrare in vigore a partire al 2022 o comunque entro fine legislatura.
L’ago della bussola governativa che indica la direzione da seguire per utilizzare la massa ingente di risorse che arriveranno con il Next generation Ue. Nel programma, approvato due giorni fa da Camera e Senato c’è insomma indicata la road map. L’incognita è tutta nel modo in cui le forze in campo, i partiti politici e gli enti locali accompagneranno questi percorsi.
«In realtà – dice il professor Aristide Police, ordinario di Diritto amministrativo al Dipartimento di Giurisprudenza della Luiss “Guido Carli” di Roma – le misure urgenti sono misure molto limitate. Misure che richiedono un minimo intervento legislativo, per il quale si può ricorrere anche alla decretazione di urgenza o misure che invece richiedono nuovi provvedimenti, ma che in realtà solo l’attuazione di norme che già esistono. L’idea portante è ampliare la portata ma soprattutto la durata delle misure già contenute nel decreto semplificazione 76/2020 varato dal Conte 2».
Se applicate e riproposte avrebbero un primo effetto balsamico. Sospendono l’applicazione delle norme previste dal Codice per i contratti al di sotto delle norme europee, accelerano le procedure, limitano i controlli della Corte dei conti ai casi di colpa grave, sollecitano verifiche più rapide dei protocolli di legalità, prevengono l’insorgere di controversie già in fase esecutiva.
LA BATTAGLIA DEI PARTITI
Sul piano politico in tanti cercheranno di intestarsi la battaglia contro la burocrazia. In primis la Lega di Matteo Salvini, a caccia di trofei da esporre per garantirsi il doppio ruolo di lotta e di governo. Ma basteranno queste misure a sbloccare ingranaggi ormai ossidati, opere ferme da tempo per via dei tanti passaggi e dei continui veti incrociati?
È la domanda dalle cento pistole che giriamo al professor Aristide Police. «La proposta più saggia che la legislazione attuale, ovvero senza riforme, il governo propone – sostiene il giurista – è il rafforzamento della cabina di regia e la riduzione del numero delle stazioni appaltanti. Quelle più grandi sanno fare meglio le gare, hanno più tecnici nei loro uffici, quindi possono operare più celermente. Ma è una proposta che non piace ad alcune forze politiche, soprattutto a quelle più diffuse e radicate sul territorio. Dunque, non stiamo parlando solo della Lega, ma anche del Pd che si è più volte posto in contrasto forte con l’idea di ridurre le stazioni appaltanti».
Perché? «Perché Comuni, enti territoriali, enti non territoriali minori – è la risposta – verrebbero privati in questo modo della possibilità di disporre di pubblici contratti, con tutto ciò che ne consegue in termini di “cattura del consenso” che, mi si perdoni il modo brutale, la gestione dei contratti pubblici ha sempre portato con sé».
In tanti d’ora in avanti isseranno la bandiera della “sburocrazia”, urleranno contro il grande ingorgo che paralizza da decenni il Paese. Ma il governo ha giocato d’anticipo. Mettersi contro le Regioni e l’apparato che il contorto meccanismo del nostro federalismo si porta dietro avrebbe infatti comportato dei rischi e pregiudicato l’attuazione dei programmi. Da qui la scelta di non spogliare i governatori di poteri e competenze.
Da qui la scelta di concentrare la realizzazione delle grandi opere nelle mani di grandi stazioni appaltanti qualificate salvo lasciare la gestione delle “piccole opere”, cioè quelle di importo inferiore ai 5 milioni di euro, alle amministrazioni locali. Stesso dicasi per le opere di importo superiore alla soglia europea ma non strategiche, ovvero non riconducibili alle diverse missioni infrastrutturali, tutela delle risorse idriche, rete ferroviaria, intermodalità logistica integrata, rete digitale e rete di transizione energetica.
I soldi, dunque, ci sono. C’è anche il Piano e ci sono le contromisure, piccole prebende, regalie varie concesse a enti, Comuni e Regioni elencati uno per uno negli allegati. Dov’è che possiamo sbagliare?
«Sbagliamo se questi soldi li frammentiamo, se li disperdiamo in mille rivoli senza riuscire a spenderli in un tempo molto ristretto. Del resto spenderli in poco tempo e bene è molto difficile. A maggior ragione meglio che a farlo siano soggetti che già lo sappiano fare».
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