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I dati della crescita economica riservano buone notizie che per il Sud: Campania e Puglia vanno meglio di Lombardia e Veneto


Altro che Autonomia differenziata in salsa leghista. Ad essere “differenziata” in Italia, negli ultimi cinque anni, è stata invece la crescita. E, nella nuova geometria del mondo capovolto, è il Sud che traina un Nord che arranca. Già un paio di settimane fa la Svimez aveva certificato, nel 2023, lo storico sorpasso del Pil del Mezzogiorno rispetto al Nord. Era da quasi trent’anni che il divario non si riduceva. Non si è trattato di un caso isolato ma di un trend che ormai potremmo dire consolidato.

Infatti, nel quinquennio 2019-2023, rispetto ad una crescita media italiana del 3,5%, il Prodotto Interno Lordo del Sud è aumentato del 3,7%, quello del Centro-Nord del 3,4%. Ma non basta. Perché nel report presentato dalla Svimez, durante un seminario nella sede di via Pinciana, guidato dal direttore, Luca Bianchi, sono emerse almeno altre due notizie che segnalano una discontinuità rispetto alla fase pre-Covid. La prima si può trovare scorrendo la classifica del Pil reale articolato per Regioni.

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È sufficiente dare uno sguardo alla nuova mappa geografica della ricchezza prodotta in Italia, con quei colori blu scuro, che segnano la crescita più forte, tutti concentrati nel Meridione e con quella vistose macchie rosse del Pil negativo dell’Italia centrale. Ma la sorpresa più grande è quella della classifica del Pil reale per regioni nel periodo 2019-2023. La Campania, con una crescita del 4,9%, fa meglio della Lombardia, che si ferma al 4,7%.

Mentre sul podio per la migliore performance economica, c’è la Puglia che con il 6,1% batte anche il Veneto, cuore del ricco nord-est, che si piazza un gradino più in basso, con il 5,9%. Ma vanno bene le cose anche in Sicilia, che cresce del 4,3%. La Calabria, invece, non va oltre l’1,3% mentre in Basilicata si registra addirittura una caduta del Pil del 5,7%. La seconda notizia, che per la verità, è la conseguenza della prima, si registra sul fronte dell’occupazione. Anche in questo caso l’Italia si è capovolta. Dal secondo trimestre 2021, si legge nel report della Svimez, “si è avviata una fase di decisa ripresa che si è protratta a tutto il 2023, proseguendo anche nei primi mesi dell’anno in corso”.

Guardando all’intero periodo 2019-2023, in termini percentuali, la crescita complessiva è stata più accentuata nel Mezzogiorno (+3,5%; +2,0% al Centro, +1,7% nel Nord-Est, +1,0% nel Nord-Ovest). Mentre, in valore assoluto, il 45% degli occupati in più sul pre-pandemia (471mila a livello nazionale) si concentra nel Mezzogiorno. In tutto più 213mila (+98mila nelle regioni centrali, +89mila nel Nord-Est, +71mila nel Nord-Ovest). Solo Piemonte (-0,6%), Emilia-Romagna (-0,1%), Sardegna (-0,9%) e Molise (-2,0%) non hanno recuperato i livelli occupazionali del pre-pandemia.

Le regioni più dinamiche risultano Puglia (+6,3%), Liguria (5,2%) e Sicilia (+5,2%), seguite da Campania (+3,6%) e Basilicata (+3,5%). “La ripresa dell’occupazione si è accompagnata con la positiva evoluzione di alcuni aspetti qualitativi – si legge ancora nel report – quali gli incrementi che hanno interessato le fasce di lavoratori con contratto a tempo indeterminato e a tempo pieno. Tutto ciò si è riflesso in un miglioramento di tutti gli indicatori del mercato del lavoro, sostanzialmente in linea con quanto avvenuto per la media Ue a 27 paesi”.

Tutto bene, allora? Per la verità ci sono due considerazioni che delineano qualche ombra sul futuro prossimo venturo dell’economia, non solo meridionale. In primo luogo, il sorpasso del Sud è frutto di un cambiamento importante delle politiche di bilancio, che hanno sostenuto negli ultimi anni le fasce più deboli della popolazione e soprattutto un settore, quello delle costruzioni, alimentato dagli incentivi del superbonus. Incentivi che, fra il 2023 e il 2024, sono stati sostituiti dagli investimenti, pubblici del Pnrr. Per una volta, le politiche economiche, hanno favorito la riduzione del divario e non creato le condizioni per l’allargamento del gap.

Il secondo motivo di preoccupazione, invece, riguarda la dinamica salariale. Infatti, a fronte di una forte crescita dei posti di lavoro, gli stipendi in Italia sono rimasti fermi. Anzi, hanno perso potere d’acquisto, a causa dell’impennata dell’inflazione. Mentre il recupero del biennio 2021-22, legato ai rinnovi contrattuali, non ha consentito di tornare sui livelli del pre-pandemia. “L’Italia – fanno notare gli esperti della Svimez e di Ref Richerche – è l’unica tra le maggiori economie europee con retribuzioni reali al di sotto dei livelli del 2013 (-5,5%; -8,1% nel Mezzogiorno)”.

La “questione salariale” pesa sulle prospettive di crescita. “Dal 2021, le principali misure di policy di accompagnamento alla ripresa – sostegno ai redditi delle famiglie e agli investimenti in costruzioni – hanno garantito una soddisfacente tenuta della domanda, con impatti territoriali omogenei. Il venir meno di queste misure inevitabilmente condizionerà il contributo alla crescita della domanda interna, rallentando ulteriormente il ritmo della ripresa. La fase di rientro dalle politiche di bilancio espansive va gestita salvaguardando le priorità dell’inclusione sociale e del rilancio degli investimenti pubblici e privati”. Molto dipenderà, dalle scelte della prossima manovra economica, che saranno però pesantemente condizionate dal ritorno delle regole del Patto di Stabilità. Un ruolo decisivo potrà essere giocato, infine, dall’accelerazione dei cantieri del Pnrr e dal rilancio degli investimenti pubblici.


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