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Reddito pro-capite, livello d’istruzione, mercato del lavoro e occupazione giovanile, infrastrutture, capitale umano, migrazioni, “turismo” sanitario, servizi per l’infanzia, reti idriche e digitalizzazione: su ognuno di questi capitoli si misura la distanza tra il Nord e il Sud del Paese, un divario che non è solo economico, ma anche sociale e chiama in causa i diritti di cittadinanza di 20 milioni di cittadini che vivono nel Mezzogiorno, che resta “l’area meno sviluppata più estesa e popolosa d’Europa”, ma è comunque “un contesto dalle grandi potenzialità”, con “un tessuto produttivo che – pur debole e incompleto – potrebbe generare effetti positivi per il Paese”.
I ritardi accumulati negli anni su diversi fronti rendono il territorio “meno vivibile e ospitale”, ponendo il rischio di un vero e proprio “tsunami” demografico: già tra il 2011 e il 2020 l’area ha perso 642mila abitanti – tra saldo naturale e migrazioni – mentre il Centro-Nord ne ha guadagnati 335mila. Senza un’inversione di rotta – missione affidata alla “occasione storica” del Piano nazionale di ripresa e resilienza che sul recupero dei ritardi del Sud investe il 40% delle risorse disponibili – nel 2030 i residenti scenderanno sotto la soglia critica dei 20 milioni, con una riduzione su base decennale di circa 4 volte rispetto al Centro-Nord (-5,7% e 1,5%). A impoverirsi sono soprattutto le fasce d’età più giovani, mentre aumenta quella “anziana”: la popolazione fino ai 14 anni superava i 3,17 milioni nel 2011, è scesa a 2,64 milioni nel 2020, ed vista in calo a 1,86 milioni nel 2050.
Le ricadute economiche sono significative per il territorio – in termini, ad esempio, della capacità di creare reddito (data la contrazione della forza lavoro), di disponibilità di capitale umano, suo principale patrimonio – ma anche per il Paese perché verrebbe meno il serbatoio di popolazione attiva storicamente a servizio delle aree più sviluppate.
E’ uno scenario allarmante quello disegnato dall’Istat nel report “I divari territoriali nel Pnrr: dieci obiettivi per il Mezzogiorno” che mette a fuoco i numeri della “questione meridionale”, che misurano “divari strutturali di vario genere e livello, anche molto ampi”, divari che si ritiene non siano più sostenibili “per l’impatto inedito sulla struttura demografica”, avviata verso “un eccessivo e non reversibile impoverimento”. Il processo di convergenza tra le due Italie – che ha avuto fasi alterne, con una breve parentesi “felice” a cavallo del “miracolo economico” – si è arrestato ormai agli inizi degli anni Settanta. La lunga crisi del 2008 ha colpito soprattutto la già debole capacità produttiva del Mezzogiorno. Lo shock pandemico, pur facendo più danni sul sistema produttivo del Centro-Nord, ha infierito su un’economia con problemi di stagnazione più accentuati rispetto al resto del Paese. Il Mezzogiorno ha tuttavia partecipato alla ripresa, che è stata però più rapida e intensa nell’area settentrionale. E ora l’Istat profila un ampliamento della forbice anche per gli effetti “fortemente asimmetrici” dell’incremento dei beni energetici legato al conflitto in Ucraina.
Il confronto tra le due Italie in termini di Pil pro-capite dà conto della divergenza esistente: nel Mezzogiorno si aggira intorno al 55-58% del Centro-Nord; nel 2021 il Pil reale è di circa 18mila euro contro i 33mila del Centro Nord.
Tutto il Mezzogiorno si colloca sotto la media nazionale, con la Calabria in coda alla classifica delle regioni italiane con 16.168 euro, mentre in testa c’è il Trentino, con 40.904 euro. Il differenziale tra Centro-Nord e Mezzogiorno è di circa 14mila euro, un valore poco distante da quello rilevato nel 2000.
Anche il livello di istruzione “conferma una grave arretratezza”, anche se “migliora nelle giovani generazioni”. Nel 2020, evidenzia l’Istituto, un terzo (32,8%) dei meridionali in età 25-49 anni (24,5% nel Centro-Nord) ha concluso al più la terza media; il 22,6% (27,6% nell’Italia settentrionale) ha un titolo terziario. Ma non solo: i risultati (gli outcome) dell’istruzione sono “notevolmente peggiori”: le competenze degli studenti, si sottolinea nel rapporto, risultano più basse in tutte le discipline e il gap aumenta nei diversi gradi d’istruzione. Differenze che si riflettono anche nel mondo del lavoro che già vede i giovani meridionali “fortemente penalizzati”: dal 2000 in poi si registrano circa 3 occupati ogni 10 in meno nel Mezzogiorno rispetto al Centro-Nord. Tranne rare eccezioni – si rileva – l’intero Mezzogiorno presenta tassi di occupazione giovanile molto inferiori alla media. La carenza di lavoro spinge la “preoccupante” ripresa dell’emigrazione di massa: il Sud e le Isole nel 2020 hanno perso ben 42 giovani residenti (tra i 25 e i 34 anni) ogni 100 movimenti anagrafici, partiti verso altre regioni italiane (+ 22 nel Centro Nord) e 56 su 100 diretti in altri Paesi (49 nel Centro-Nord).
Grandi ritardi anche nei servizi per l’infanzia, che oltre che per lo sviluppo del bambino, sono cruciali anche per l’occupazione delle donne. L’Italia, pur avendo compiuto passi avanti in entrambe le aree, resta lontana dall’obiettivo Ue del 33% e indietro rispetto agli altri partner europei. E il gap tra Nord e Sud è profondo: due terzi dei bambini tra 0 e 3 anni nel Mezzogiorno vive in contesti con livelli di offerta inferiori agli standard nazionali e il 17,8% in zone con una dotazione molto bassa o nulla (5,3% nel Centro-Nord). In particolare, Nord-est e Centro Italia presentano una copertura sopra il target europeo (rispettivamente 34,5% e 35,3%), il Nord-ovest è prossimo all’obiettivo (31,4%) mentre Sud (14,5 %) e Isole (15,7%). Da un estremo all’altro: se la Val D’Aosta è prima con 43,9 posti disponibili ogni 100 bambini 0-2 anni, Calabria e Campania chiudono la classifica con valori di poco superiori al 10%.
Differenze territoriali rilevanti, poi, caratterizzano l’efficienza, l’appropriatezza e la qualità dei servizi sanitari. Soprattutto in alcune regioni coinvolte dai Piani di Rientro (6 su 7 nel Sud) la contrazione della spesa pubblica ha inciso negativamente sui LEA (Livelli Essenziali di Assistenza), contribuendo ad alimentare il fenomeno della “emigrazione sanitaria”: i ricoveri extra-regionali sono il 9,6% di quelli interni, contro il 6,2% nel Centro-Nord). In oltre 1 provincia su 5 (21,1%; 7,2% nel Centro-Nord) tale mobilità sanitaria è particolarmente intensa.
Sul fronte delle infrastrutture, il Mezzogiorno ha una rete di trasporto visibilmente inferiore alle altre ripartizioni. La densità della rete ferroviaria è nettamente più bassa, soprattutto nell’alta velocità (0,15 Km ogni 100 Km di superficie; 0,8 al Nord; 0,56 al Centro). E negli ultimi decenni l’ampliamento è stato molto modesto (+0,3% contro +7,1% del Centro-Nord) mentre è aumentato il gap qualitativo (58,2% di rete elettrificata; 79,3% del Centro-Nord). Resta ampio il gap sulla digitalizzazione: il 60% circa dei residenti ha opportunità ridotte di accesso alla Banda ultra-larga, e circa 1 su 5 (17,3%) vive in contesti molto distanti da questo standard (4,2% nel Centro-Nord). Quanto alle reti idriche, se l’obsolescenza è un fattore critico data la sempre più grave siccità che interessa il Paese, per il meridionale lo è ancora di più: spesso si registrano perdite per circa la metà dell’acqua per uso civile. Livelli di efficienza superiori alla media caratterizzano tre quarti delle province del Mezzogiorno (1/4 nel Centro-Nord).
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