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Lo stabilimento Stellantis di Melfi, in Basilicata

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Eppur si muove! È la frase celebre che la tradizione attribuisce a Galileo Galilei, lo scienziato pisano, che, riferendosi alla Terra, l’avrebbe sommessamente pronunciata nel 1633, di fronte ai giudici dell’Inquisizione, al termine della sua abiura dell’eliocentrismo.

Non c’è certezza che ne sia stato veramente l’autore, in ogni caso ben s’attaglia a descrivere la condizione attuale del Mezzogiorno, che, nonostante il ritardo nel processo di crescita presenta un quadro piuttosto incoraggiante. Questa è la valutazione che si può fare scorrendo le pagine del nono volume “Il tessuto manifatturiero del Mezzogiorno. Potenzialità economiche, dinamiche produttive e strategie di filiera che fa parte della collana un “Sud che innova e produce” realizzato da SRM (Centro studi collegato al Gruppo bancario Intesa Sanpaolo) in collaborazione con il Cesdim presentato all’Università di Bari.

In genere si comincia a raccontare un evento, un personaggio, un libro dall’inizio, stavolta preferiamo invece partire dalla conclusione: il Mezzogiorno ha una propria anima industriale alla cui base c’è una presenza industriale non trascurabile che contribuisce alla competitività del Paese, dove le eccellenze sono spesso nascoste nelle medie numeriche. Ma un’osservazione più accurata della realtà può mostrare tutti i tasselli di un puzzle complesso. Una conclusione, converrete, che va contro pregiudizi, luoghi comuni, sentito dire, sul nostro Sud.

A suffragare la ricerca sono i dati, che, come ci insegna la statistica, rappresentano meglio di ogni parola, le dinamiche e le traiettorie nel nostro caso del Mezzogiorno. Basti pensare che sono 91.969 le imprese manifatturiere meridionali, un quarto delle 367.358 aziende italiane. Il Mezzogiorno è settimo nel ranking europeo per numero di imprese manifatturiere collocandosi tra Spagna (168.689) e Slovacchia (77.085). Il tessuto imprenditoriale è composto non solo da piccole e medie imprese: l’Osservatorio Cesdim ha individuate e analizzate circa 250 grandi imprese con oltre 50 milioni di euro di fatturato/valore della produzione.

Di più. Nel Sud sono, ad esempio, collocate le tre maggiori fabbriche per numero di occupati e sono presenti produzioni di grande rilievo: oltre il 50% dei laminati piani grazie al siderurgico di Taranto (ex Ilva), il 68,6% della capacità di raffinazione petrolifera (Polo petrolchimici di Siracusa) oltre la metà delle auto e della totalità di veicoli commerciali leggeri, gran parte dell’energia generata da fonte eolica nei grandi parchi di Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata, Campania, Calabria, Sicilia e Sardegna; pale eoliche per aerogeneratori di grande potenza; macinazione di grani duri e teneri in vari molini; paste alimentari con gli impianti di player; conserve di pomodori e legumi; divani e poltrone imbottiti in pelle.

La filiera industriale meridionale risulta, inoltre, fortemente interconnessa con il resto del Paese. L’export interregionale supera quello estero: per ogni euro che va all’estero se ne aggiunge 1,3 destinato al resto dell’Italia. Il comparto manifatturiero meridionale genera un notevole impatto economico sul Paese pari a 493 euro (di cui 315 fuori della regione di investimento) a fronte del dato medio nazionale di 375.

Oggi le imprese industriali meridionali devono, però, confrontarsi con importanti sfide che plasmeranno il futuro contesto competitivo. Almeno tre sono quelle più rilevanti: sostenibilità, questione energetica ed equilibri geoeconomici. La nuova vision europea individua nella transizione ecologica, sostenibile ed ambientale un tema centrale per lo sviluppo economico e ci punta con forza e decisione. Il Mezzogiorno ha le potenzialità e le caratteristiche produttive per affrontare la sfida e contribuire da protagonista al successo del Paese. E i dati, ancora una volta, lo confermano. La filiera bio-economica meridionale vale 24,9 miliardi di euro e con circa 715mila addetti rappresenta rispettivamente il 24,1% ed il 35,5% del dato nazionale. Il Sud rappresenta il 12% del valore aggiunto ed il 17% degli addetti della manifattura.

Nel Mezzogiorno l’impronta bio-economica è maggiore della media nazionale: il 7% contro il 6,4%. La seconda sfida è la questione energetica, divenuta anch’essa di stringente necessità. Il Sud può rappresentare una possibile e concreta soluzione innanzitutto perché è un hub green ed energetico capace di produrre con i suoi impianti il 52% di eolico, solare e bioenergie del Paese. Inoltre è la porta d’ingresso di flussi energetici provenienti dal Nord Africa (i gasdotti Transmed e Greenstream). Dall’area caspica approda in Puglia il Tap. Infine, l’ultima sfida interessa i nuovi equilibri geoeconomici che determinano una sempre maggiore centralità del Mediterraneo e quindi nuove opportunità che l’industria meridionale può sfruttare. Porti, shipping e logistica del Sud sono una risorsa essenziale per l’economia nazionale e per il posizionamento geoeconomico del Mezzogiorno (4.600 le imprese dello shipping nel Sud) in quanto consentono lo sviluppo delle interconnessioni industriali.

Ma attenzione: la presenza dell’industria manifatturiera nel Mezzogiorno è una condizione necessaria per competere, ma non sufficiente. Sono ancora molti i nodi da sciogliere e le aree su cui investire. Tre su tutte: la competenza attraverso la formazione e la ricerca, la connessione logistica e digitale attraverso la realizzazione e/o integrazione di infrastrutture materiali e immateriali e la competizione mediane una presenza industriale strutturata e più “densa”.  


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