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Il possibile “conflitto” tra gli obiettivi perseguiti dai singoli interventi e il vincolo territoriale, la capacità amministrativa degli enti territoriali e i tempi di realizzazione delle opere: sono tre le principali criticità che mettono a rischio il raggiungimento di quello che uno dei principali obiettivi del Piano nazionale di ripresa e resilienza, la riduzione dei divari territoriali. L’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) le ha messe in evidenza nel testo dell’audizione sull’assetto della finanza territoriale e sulle linee di sviluppo del federalismo fiscale illustrato ieri dalla presidente, Lilia Cavallari, davanti alla Commissione bicamerale sul Federalismo Fiscale.
All’obiettivo il Piano nazionale di ripresa e resilienza, secondo le cifre del Dipartimento per le politiche di coesione della Presidenza del Consiglio dei ministri (Dpcoe), destina 86 miliardi, il 40,8% dei 211,1 miliardi allocabili territorialmente (su 222,1 miliardi complessivi, tra i 191,5 del Piano nazionale di ripresa e resilienza e i 30,6 del Fondo complementare). Per circa il 72% delle risorse territorializzabili – 152,7 miliardi – sono state già avviate le procedure per l’attuazione degli interventi. Stessa percentuale di attivazione per la Quota Sud, per un valore di 61,9 miliardi.
L’Upb stima che gli enti territoriali, in qualità di soggetti attuatori, sono chiamati a gestire tra 66 e 71 miliardi delle risorse complessive assegnate dal Recovery and resilence facility (Rrf), circa il 34,7% e il 36,9%, all’Italia per le sei missioni del Pnrr.
Il 40,8% destinato al Mezzogiorno sintetizza le diverse percentuali “in capo” ai vari ministeri, che risultano per lo più maggiori o intorno al 40%, con l’eccezione del Mise, il Ministero per lo sviluppo economico, e quello per il Turismo che si fermano rispettivamente a circa il 25% e 30%. Le motivazioni sona varie, tra cui il fatto che si tratta di misure per cui la normativa primaria di riferimento – come, per esempio, per i crediti d’imposta di Transizione 4.0 – non prevedeva riserve a favore del Sud, o per la presenza di investimenti che devono attenersi ai principi di sostenibilità economico-finanziaria da valutare sulla base di criteri di mercato, o di un meccanismo di open call che non rende possibile definire ex ante vincoli territoriali. Intanto un primo esame del Dpcoe sulle misure già messe a gara, ma per cui non sono ancora stati selezionati i progetti da finanziare, ha messo in evidenza il mancato rispetto spesso da parte delle amministrazioni di quanto disposto dal ministero del Sud, via circolare, a garanzia del vincolo Sud.
Tre sono infatti le procedure prevalenti: le risorse non assegnate vengono comunque destinate ai territori meridionali a salvaguardia della quota Mezzogiorno, ma solo per poco più di un terzo del valore complessivo delle risorse oggetto dell’analisi; le risorse non assegnate vengono allocate indipendentemente dalla localizzazione territoriale degli interventi; non è previsto esplicitamente alcun criterio per la destinazione territoriale delle risorse non assegnate, e ciò si verifica per la maggior parte delle risorse. Si arriva poi alle “criticità” che mettono a rischio la “missione” riduzione dei divari territoriali. In primis la “difficoltà di integrare l’obiettivo territoriale con quelli specifici dei singoli interventi”.
L’analisi dell’Upb si è basata sui 36 bandi pubblicati fino al 2 maggio 2022 per l’assegnazione delle risorse del Pnrr agli enti locali, per un valore di 24,3 miliardi, di cui il 43,3% destinato al Mezzogiorno. Ciascuna delle sei diverse tipologie di definizione della graduatoria dei progetti adottate nella strutturazione dei bandi presenta criticità circa “i possibili riordinamenti della graduatoria finale dei progetti selezionati rispetto a quella che si avrebbe in assenza di applicazione del vincolo territoriale, a discapito sia dell’efficienza sia del raggiungimento dell’obiettivo primario degli interventi”.
Ad esempio, nel caso sia prevista una graduatoria nazionale (come per il Pinqua, il programma per la rigenerazione urbana, per 2,8 miliardi, del Mims) il problema nasce quando la graduatoria “generata” dai criteri del bando non soddisfa il vincolo territoriale: in questo caso si privilegerebbero progetti “meno pertinenti” ma localizzati nel Sud a scapito di quelli più rilevanti ai fini dell’obiettivo dell’intervento. O, come nel caso del bando per gli asili nido (2,4 miliardi) – se sono provviste graduatorie regionali con plafond determinato sulla base dell’obiettivo primario (in questo caso il 33% di copertura del servizio) – potrebbe accadere che un ente già in linea con l’obiettivo (Lep o target europeo) venga finanziato ugualmente perché altri enti della stessa regione – con gap maggiori – decidono di non partecipare, lasciando quindi “libere” le risorse loro destinate. Un’altra criticità risiede nella capacità degli enti di mettere a terra i progetti: si parla di capacità di progettazione e attivazione della spesa che deve fare i conti con organici falcidiati e poco qualificati a causa del blocco del turnover.
E questo vale ancora di più per il Mezzogiorno dove, in particolare, la riduzione del personale è stata ancora maggiore e la “sostituzione” prevalentemente realizzata attraverso la stabilizzazione dei lavoratori socialmente utili (Lsu). Il governo ha messo in campo diversi strumenti di sostegno, ma la loro attivazione dipende dalle singole amministrazioni. I dati raccolti dall’Upb rilevano la presenza di “difficoltà” da parte di alcuni enti. in questo senso. Ad esempio, nell’ambito dell’investimento per il miglioramento e la meccanizzazione della raccolta differenziata le richieste di personale della Sicilia sono “coerenti” con il raggiungimento del target per il 2023, le altre due regioni con i risultati peggiori, Calabria e Basilicata, hanno avanzato richieste in linea con la media nazionale.
C’è poi la questione dei tempi di realizzazione delle opere. L’analisi condotta sulle procedure di appalto relative al periodo 2007-2021 mostra che i tempi nel Mezzogiorno sono in media maggiori del 7% rispetto al Centro, del 21% e del 22% superiori a quelli, rispettivamente, del Nord Est e del Nord Ovest.
Le modifiche al Codice degli appalti, le semplificazioni introdotte per “spingere” gli interventi del Pnrr e quelle del disegno di legge delega per la riforma dei contratti pubblici (in discussione in Parlamento) dovrebbero dare un contributo significativo al taglio dei tempi e del gap territoriale.
La scelta, poi, di soluzioni semplificate e flessibili – come la procedura negoziata o l’affidamento diretto, il criterio di massimo ribasso, l’appalto integrato – velocizzerebbero affidamento dei lavori e avvio dei cantieri. Ma devono essere “bilanciate” da un’accurata selezione della “controparte”, attraverso il rating di impresa e il sistema di qualificazione delle stazioni appaltanti.
Un contributo rilevante alla riduzione di divari si affida alla perequazione infrastrutturale, processo “riattivato” di recente con la previsione di un fondo ad hoc con una dote di 4,6 miliardi. Poca cosa rispetto all’ampiezza del gap.
Accanto alla ricognizione delle opere e dei fabbisogni, un gruppo di lavoro trasversale sta lavorando alla definizione di un indicatore ponderato che tenga conto, per aree e settori, del gap infrastrutturale che potrebbe “guidare” la ripartizione delle risorse esclusivamente sulla base delle effettive esigenze di riequilibrio del territorio. Prescindendo, quindi, dalle specifiche riserve a favore del Mezzogiorno che, si evidenzia, diverrebbero automatiche se l’obiettivo è quello di colmare i divari nelle dotazioni infrastrutturali.
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