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«Paghiamo ancora la guerra in Etiopia». Tale affermazione ci sarà balzata alle orecchie innumerevoli volte a proposito dei prezzi del carburante. È infatti radicata la convinzione che le famose e vetuste accise siano la leva principale che fa alzare le quotazioni di benzina verde e diesel in Italia. È vero, ma occorre fugare il campo da inesattezze. Le accise pesano sul nostro portafogli quando ci rechiamo a un distributore, ma attorno a questo tema si agitano alcuni luoghi comuni errati.
IL GIALLO DELLE GUERRE COLONIALI
Il termine accisa deriva dal latino “accidere”, cioè “tagliare”. Con l’accisa, infatti, lo Stato “taglia”, sotto forma di imposta sulla fabbricazione o sulla vendita, una parte economica di un determinato prodotto. Fin dalla prima metà del secolo scorso, i governi che si sono succeduti hanno fatto ampio ricorso alle accise sui carburanti per finanziare guerre e varie emergenze. Già negli anni Trenta, per sostenere le spese belliche in Africa, il fascismo decise di mettere mano al prezzo della benzina in questo modo: 0,1 centesimi in più per finanziare la missione in Abissinia, ai quali l’anno dopo si aggiunsero 1,9 centesimi per la guerra in Etiopia. Tuttavia, l’imposta in questione fu abolita pochi mesi dopo: il sito “Pagella Politica” ha recuperato un articolo de “La Stampa” del 12 settembre 1936 sulla cancellazione dell’aumento del costo della benzina per far fronte alle spese belliche.
L’ELENCO DELLE ACCISE
Ma il ricorso alle accise non si esaurì con la fine dell’esperienza coloniale. Un ritorno di questa imposta sul costo della benzina si ebbe nel 1956, ancora per via di un avvenimento consumatosi in Africa: la crisi di Suez.
Il primo intervento per un’emergenza entro i confini nazionali risale invece al 1963: una nuova accisa, stavolta per il disastro del Vajont. Ancora, negli anni dopo, l’accisa diventerà uno strumento ricorrente: ne verranno introdotte di nuove per l’alluvione di Firenze (1966), per il terremoto del Belice (1968), per quello del Friuli (1976) e anche per quello dell’Irpinia (1980). Nel 1982 e nel 1986, rispettivamente, le accise sulla benzina tornarono d’attualità per finanziare la missione Onu in Libano e quella in Bosnia.
Nel nuovo millennio si contano, ancora, le accise per il rinnovo del contratto degli autoferrotranvieri (2004), per l’acquisto di autobus ecologici (2005), per la ricostruzione post-terremoto de L’Aquila (2009). Più di recente, per il finanziamento alla cultura (2011), per l’alluvione di Toscana e Liguria (2011), per finanziare il decreto Salva Italia (2011), per il terremoto dell’Emilia (2012), per sostenere il Bonus gestori e il decreto Fare (2014).
IL DECRETO DINI
Il numero delle accise attualmente ammonta dunque a diciotto. Va però fatta una precisazione: nel 1995 l’allora governo Dini emanò un decreto che ingloba le singole voci in un’unica imposta che finanzia il bilancio statale nel suo complesso. Ciò significa che le motivazioni originarie sono formalmente sparite, benché esercitino ancora un peso economico sul prezzo del carburante. E in questi giorni, come conseguenza indiretta della guerra in Ucraina, i listini sono fuori controllo: la benzina oscilla attorno a quota 2,3 euro per litro, mentre il gasolio si aggira sui 2,27 euro per litro.
L’Italia è tra i Paesi europei dove il carburante costa di più, non a caso è anche il Paese in cui le accise sono tra le più alte. Il rischio concreto è che il prezzo salga ulteriormente e tra due giorni è atteso lo sciopero dei trasportatori che potrebbe provocare seri problemi di logistica nel Paese. È per questo che associazioni di consumatori e partiti politici invocano la sospensione delle accise (la Lega ha presentato al riguardo una mozione).
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