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Vale quattro miliardi di euro l’interscambio commerciale tra Italia e Ucraina, di cui 500 milioni di euro di controvalore è generato dalle imprese del Mezzogiorno. L’inizio delle ostilità da parte della Russia contro Kiev avrà verosimilmente ripercussioni significative per la nostra economia e soprattutto le nostre imprese per le quali l’Ucraina rappresenta un importante mercato di sbocco.

L’Ucraina è il quarto mercato dell’export tricolore intercettando il 5,1% del totale. Il nostro Paese occupa l’ottava posizione nella classifica dei fornitori con il 3,6%. In termini economici, nei primi 10 mesi del 2021, l’Italia ha esportato merci per 1,429 miliardi di euro, mentre ha importato prodotti per 2, 461 miliardi di euro.

Metallurgia, agro-alimentare, abbigliamento, arredamento, macchinari costituiscono i prodotti che si muovono lungo l’asse Roma-Kiev. E, uno su tutti, il grano, tenero e duro, che importiamo in grandi quantità per essere macinato e trasformato, rispettivamente, in pane e pasta. Non a caso, come si sa, l’Ucraina è stato definito il granaio dell’Europa per le grandi estensioni coltivate a cereali (frumento, mais, orzo, segale, sorgo, miglio), mentre altre grandi superfici sono dedicate alla coltivazione di legumi (piselli, ceci, lenticchie, fagioli, fave), del girasole (per ottenere l’olio) e mangimi per la zootecnia.

Il focus è oggi su due commodity agricole di strategica importanza per l’industria agro-alimentare nazionale: il grano per il pane e il mais per l’alimentazione animale che hanno fatto registrare un incremento tra il 4,5 e il 5% in pochi giorni. Le associazioni agricole di Coldiretti, Confagricoltura e Cia lanciano l’allarme per i propri associati sull’impennata dei rincari e del protrarsi delle ostilità tra i due paesi che possono surriscaldare i prezzi e mettere le imprese in difficoltà.

È nutrito anche il drappello di imprese presenti in Ucraina. Sono 175 – dati riferiti al 2017 – le società presenti a Kiev attive nei settori alimentare, tessile, legno, calzature, ceramica e finanziario. Occupano 6.692 addetti con un fatturato complessivo di 433 milioni di euro. Sono presenti sia grandi, sia piccole e medie imprese. In testa l’Eni Ukraine (idrocarburi), la Mapei (prodotti chimici), la Buzzi Unicem (materiali per l’edilizia), la Inblu (abbigliamento) e la Selex (mezzi di trasporto). Il settore finanziario, invece, è presidiato da Intesa Sanpaolo con Pravex Bank.

Dopo una battuta d’arresto nel 2020 a causa della pandemia, il nostro export è tornato sui livelli del 2017. Stando all’Osservatorio della Farnesina “il sistema moda-persona, le forniture di macchinari per l’industria e per l’edilizia, di materiali per costruzioni, di dotazioni per abitazioni e spazi commerciali, e di apparecchi per uso domestico” sono i comparti più interessati. Nel dettaglio le vendite di macchinari movimentano 400 milioni di euro all’anno. Poi ci sono settori storicamente forti del Made in Italy, come la moda (articoli in pelle compresi) che pesa oltre 200 milioni di euro e l’arredamento che vale oltre 50 milioni di euro.

“L’Italia è il primo fornitore di macchinari per la realizzazione di piastrelle, e di altri articoli a base di ceramica (sanitari e boiler)” aggiungono dal ministero degli Esteri. La macro-categoria dei macchinari vale 376 milioni di euro. Da segnalare inoltre il comparto dell’estrazione dei minerali, che pesa per 169 milioni di euro.

L’escalation della crisi ucraina, oltre ad ampliare gli effetti della crisi energetica in corso (con le quotazioni del gas e del petrolio sui massimi) rappresenterebbe un ulteriore fattore critico per le imprese manifatturiere, strette nella tenaglia di aumento dei prezzi delle commodities, difficoltà di reperimento di materie prime e del personale, lunghi tempi di consegna e aumento dei costi del trasporto via container. Un’analisi delle conseguenze di lungo periodo della crisi di Crimea del 2014 evidenzia che, nonostante le prolungate sanzioni economiche alla Russia conseguenti al conflitto del 2014 – il 13 gennaio scorso l’Unione europea le ha prorogate fino al 31 luglio 2022 – sale la dipendenza dal gas russo, la cui quota sui volumi delle importazioni Ue tra il 2013 e il 2020 è aumentata di 1,6 punti percentuali.

La dipendenza dal gas russo – espressa dal peso sul valore dell’import di questa commodity – sale anche in Italia. Sulla base delle stime preliminari dell’Istat, si calcola che nel 2021 l’Italia ha un interscambio con la Russia di 7,697 miliardi di euro di esportazioni e di 13,984 miliardi di euro di importazioni, di cui il 53,5% è costituito da petrolio greggio e gas naturale, pari a 6,841 miliardi di euro (import cumulato degli ultimi 12 mesi ad ottobre 2021). Nel 2021 le esportazioni verso la Russia segnano un rimbalzo dell’8,8%, ma sono inferiori del 2,3% rispetto ai livelli pre-pandemia del 2019. Il valore del made in Italy venduto in Russia nel 2021 rimane inferiore del 28,5% ai livelli del 2013, precedenti allo scoppio del conflitto russo-ucraino del 2014.

Le conseguenze del precedente conflitto si sono ripercorse interamente sulle esportazioni verso la Russia che, tra il 2013 e il 2021, per l’Unione europea a 27 hanno accusato un calo del 23,4%, con una maggiore penalizzazione del made in Italy (-29,3%) rispetto alle esportazioni di Germania (-26,1%), Spagna (-21,9%) e Francia (-19,6%). Tra i prodotti maggiormente venduti dalle imprese italiane in Russia, nel periodo considerato, il calo è drammatico per la moda (-43,4%), rimane severo per i macchinari (-26,7%), mentre, in controtendenza, sale l’export della chimica (+20,6%).

Tra le prime otto regioni maggiormente presenti sul mercato russo nove anni fa, tra il 2013 e il 2021, l’export è crollato in Abruzzo (-75,9%), nelle Marche (-59,6%) e in Toscana (-40,4%). Forti cali, seppure più allineati alla media, anche per Lombardia (-30,4%), Veneto (-26,2%) ed Emilia-Romagna (-25,2%). Riduzioni progressivamente attenuate per Lazio (-12,4%) e Piemonte (-1,8%). Tra le prime venti province presenti sul mercato russo, per sette di queste tra 2013 e 2021 le esportazioni verso la Russia sono più che dimezzate: per Chieti, dove segnano un -81,4%, Fermo con -70,3%, Mantova con -61,3%, Varese e Rimini con -59,7% e Como con -54,4%.

La regione con la maggiore esposizione sul mercato russo – valutata con l’incidenza percentuale delle esportazioni manifatturiere sul valore aggiunto del territorio – è l’Emilia-Romagna con l’1%, seguita da Veneto con 0,89%, Marche con 0,81%, Piemonte con 0,64%, Friuli Venezia Giulia con 0,62% e Lombardia con 0,60%.


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