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Grano e vino, due prodotti preziosi della miniera agricola del Sud, sono nella bufera. Per motivi diversi, ma entrambi stanno navigando in acque tempestose. I venti di guerra che soffiano dalla Russia si stanno intensificando e l’invasione dell’Ucraina sembra sempre più possibile. Tra gli effetti drammatici ci potrebbe essere anche quello di scatenare una tempesta perfetta nell’economia mondiale.

E il grano, commodity strategica, rischia la débâcle. Russia e Ucraina infatti rappresentano più di un terzo dell’export mondiale e dunque una chiusura dei mercati farebbe impennare ulteriormente le quotazioni. Mentre oggi a causa del caro bolletta energetica gli agricoltori italiani stanno producendo in perdita. Il conflitto, dunque, andrebbe a pesare su gas e cereali due pilastri delle economie europee. La Russia – sottolinea uno studio della Coldiretti sull’approvvigionamento delle materie prime – è il principale Paese esportatore di grano a livello mondiale mentre l’Ucraina si colloca al terzo posto.

A preoccupare sono anche i possibili danni alle infrastrutture che un eventuale conflitto potrebbe provocare bloccando le spedizioni dai porti del Mar Nero con un crollo delle disponibilità sui mercati mondiali già in grande tensione. L’Ucraina – evidenzia l’analisi – oltre ad avere una riserva energetica per il gas ha un ruolo importante anche sul fronte agricolo con la produzione di circa 36 milioni di tonnellate di mais per l’alimentazione animale e 25 milioni di tonnellate di grano tenero per la produzione del pane. A gennaio l’indice dei prezzi alimentari della Fao ha segnato una crescita record del prezzo dei cereali (+12,5% rispetto al 2021) e la guerra Russia-Ucraina andrebbe a sconvolgere ulteriormente i mercati.

L’Italia – ricorda poi Coldiretti – è un Paese deficitario e importa il 64% del proprio fabbisogno per la produzione di pane e biscotti e nel 2021 ha acquistato oltre 120 milioni di chili di grano dall’Ucraina e circa 100 milioni di chili dalla Russia.

Mentre nelle campagne italiane si rischia di tagliare la produzione. Il granaio italiano si è già ristretto a causa di una politica economica che ha snobbato il settore. In 4 anni si è passati da 543mila ettari investiti a 500mila per una produzione di circa 2,87 milioni di tonnellate.

Una situazione che colpisce soprattutto la Puglia che mantiene la leadership produttiva con 360.000 ettari e quasi 10 milioni di quintali prodotti. E il conto nelle campagne potrebbe aggravarsi.  Secondo i dati di Consorzi Agrari d’Italia le sementi di grano duro registrano un balzo dei prezzi del 35%, mentre per i chicchi di grano tenero l’aumento è del 15%. Se si aggiungono i carburanti la bolletta lievita del 50%. Gli agricoltori pugliesi hanno già fatto i loro calcoli: dovranno spendere 400 euro in più a ettaro e dunque i 50 euro a quintale che possono spuntare non vanno neppure a coprire i costi di produzione.  I cereali stanno diventando   il simbolo di un’emergenza economica che non garantisce più la sostenibilità finanziaria delle imprese agricole già colpite dall’effetto Covid.

Dal grano al vino le condizioni sono diverse, ma le criticità analoghe. Il vino, su cui il Sud ha investito molto con una importante operazione di qualificazione, è finito nel mirino della Ue.

Entro una settimana – annuncia l’Unione italiana vini – al Parlamento europeo si consumerà il voto decisivo sul Piano anticancro che l’Unione adotterà per arginare il male del secolo. E il vino ne farà le spese. E se non ci saranno emendamenti correttivi, decreta l’Uiv, “a Strasburgo andrà in scena l’inizio della fine del vino italiano”. Un prodotto che ha macinato record storici a partire dall’export che ha raggiunto quota 7,1 miliardi. La Ue punta a bloccare la promozione, ma anche a contrassegnare le bottiglie con etichette choc e ad appesantire la tassazione.

Un appello a desistere dai tagli Ue alla promozione di vino è arrivato da Coldiretti e Filiera Italia che hanno scritto alle istituzioni europee sottolineando come “Il giusto impegno dell’Ue per tutelare la salute dei cittadini non può tradursi in decisioni semplicistiche che rischiano di criminalizzare ingiustamente singoli prodotti indipendentemente dalle quantità consumate”. Una politica che finisce col mettere nell’angolo la Dieta mediterranea, che ha i suoi capisaldi nella pasta, nell’olio, ma anche nel vino che vale 11 miliardi di fatturato e 1,3 milioni di occupati. Intanto il settore ha l’opportunità di conquistare nuova liquidità grazie al Pegno rotativo che dopo aver fatto la fortuna dei formaggi e prosciutti Dop è stato esteso a tutti i prodotti a marchio Ue grazie alla sua introduzione nel provvedimento “Cura Italia”. Finora hanno usufruito di questo nuovo strumento 95 aziende vinicole per un valore di circa 62 milioni.

Ma il Sud è il grande escluso. A rilevarlo il deputato Giuseppe L’Abbate (M5S) della Commissione agricoltura alla Camera che da sottosegretario al ministero delle Politiche agricole ha promosso l’estensione del “Pegno rotativo”. Le province attive sono quasi esclusivamente quelle del Centro Nord. “Eppure il Mezzogiorno – sottolinea L’Abbate- può vantare importanti produzioni di vini a denominazione di origine. Sono infatti 66 le Doc e Docg e 29 le Igt con Puglia e Campania in testa, mentre nelle isole le Dop sono ben 42 e 22 le Igt. Insomma un bacino ampio di potenziali beneficiari del Pegno”. Il problema ancora una volta è da ricercare nella difficoltà di dialogo tra le banche e le imprese agroalimentari che si aggrava proprio al Sud, dove le aziende agricole hanno maggior bisogno di ossigeno finanziario.


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