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Ci dobbiamo preoccupare? Così abbiamo scritto all’inizio di un articolo del 19 gennaio a proposito dell’inflazione. E così esordiamo, in un’ottica di recidiva, sulle colonne di oggi.
Ci dobbiamo preoccupare? Parliamo questa volta del famoso spread, cioè la differenza, espressa in centesimi di punto percentuale (chiamati ‘punti base’), fra i rendimenti del nostro BTp a 10 anni e quelli del coetaneo Bund tedesco.
Certamente, questo spread – che è un’espressione stenografica del giudizio dei mercati sull’affidabilità dei nostri titoli – è aumentato e si situa vicino ai 140 punti base. E certamente questo spread è influenzato sia da fattori economico-finanziari che da fattori politici. E certamente, ancora, questi ultimi non depongono a favore dell’Italia: le incertezze riguardanti l’imminente elezione del Presidente della Repubblica (con la candidatura di un personaggio, i cui guai con la giustizia non sono neanche finiti…) ha giocato un ruolo nell’allargamento del divario in questione. Ciò detto, non bisogna guardare allo spread con l’angoscia di un tempo.
Ricordo i primi mesi del 1997 quando Carlo Azeglio Ciampi, ministro del Tesoro, impegnato nella spasmodica corsa all’ingresso dell’Italia nell’euro, guardava allo spread ogni 5 minuti; e ricordo i giorni angosciosi della crisi da debiti sovrani, quando, a fine 2011, lo spread superò i 500 punti base. Oggi le condizioni non sono così spasmodiche o così tragiche.
Lo spread è, si è detto, una differenza: una differenza fra due livelli. La differenza è qualcosa di importante, ma sono altrettanto importanti i due livelli che si confrontano. E questi livelli, nei due episodi citati, erano ben lontani da quelli di oggi. Nella primavera del 1997 i rendimenti del BTp erano sul 7% e quelli dei Bund sul 5%; nel parossismo di fine 2011 il BTp era tornato al 7% (dopo aver toccato livelli sotto il 4% nel periodo intercorrente), e si confrontava con rendimenti del Bund intorno al 2%. Oggi il Bund è intorno allo zero%, e il BTp segna 1,35-1,40%.
Torniamo ai due fattori che oggi influenzano il divario. Quelli politici dureranno fino a che il Parlamento non faccia la sua scelta. E, dando fiducia a che i rappresentanti del popolo convergano su una scelta conveniente per il bene del Paese, l’incertezza dovrebbe dissiparsi, con effetti benefici sullo spread.
Per quanto riguarda invece i fattori economico-finanziari, è bene partire dal grafico che raffigura l’andamento dei rendimenti in Italia, in Germania e negli Stati Uniti. Come si vede, dappertutto i tassi stanno risalendo (negli Usa più che altrove), e ci sono almeno tre ragioni per questa corale risalita. Da una parte, l’inflazione. Ci sono diverse opinioni sul fatto se l’accelerazione dei prezzi sia temporanea (ora la tigre ruggisce ma in corso d’anno andrà a miagolare) o prodromo di un più alto permanente tasso di inflazione. Ma, qualunque sia l’opinione al riguardo (e chi scrive sottoscrive la prima), non c’è dubbio che l’inflazione ora c’è ed è comprensibile che i rendimenti salgano, spinti dalla voglia di conservare il potere d’acquisto degli interessi incassati o incassandi. Dall’altra parte, c’è l’economia che tira, ed è certo che è stata violata una regola: la regola secondo cui, in un’economia ben temperata, il tasso di interesse reale è vicino al tasso di crescita del Pil. E, dato che il tasso di crescita di detto Pil – ampiamente positivo – è lontanissimo dal tasso di interesse reale – che è addirittura negativo – si comprende come l’aumento dei rendimenti rappresenti un processo di normalizzazione.
Queste due prime ragioni attengono ai meccanismi spontanei dell’economia reale. La terza ragione, invece, attiene alle politiche economiche, e segnatamente a quelle monetarie. Anche qui è in corso una normalizzazione. Durante la crisi i banchieri centrali avevano cambiato pelle, come i serpenti con la muta. Fino a pochi anni fa arcigni guardiani dell’ortodossia, lasciarono il doppiopetto e indossarono scarpe da ginnastica e boxer da pugile. E fecero di tutto e di più, portando i tassi a zero o sottozero, spargendo soldi dall’elicottero, consigliando i governi a fare più deficit e a non rilassare prematuramente la politica di bilancio, minimizzando i pericoli dell’inflazione… Ora, non si sono veramente rimessi il doppiopetto, ma almeno hanno deciso che il troppo è troppo, e stanno cautamente alzando il piede dall’acceleratore (come notato nell’articolo del 19 gennaio).
Va bene, ma perché in questa corale risalita, i nostri aumenti dei rendimenti sono stati maggiori che altrove? L’altro grafico mostra tre spread: quello classico BTp/Bund, quello fra i BTp e i Bonos spagnoli; e, infine, quello fra i T-Bond americani e i Bund. Una prima ragione sta nel fatto che, quando i tassi salgono, sono specialmente penalizzati i Paesi con alto debito pubblico. E questo spiega anche il fatto che si è allargato il divario con la Spagna, che ha un debito molto minore del nostro. Una seconda ragione sta nel primo dei fattori che influenzano lo spread, i fattori politici. E qui come appena detto, il clima dovrebbe rasserenarsi, appena sia voltata la pagina del tormentone dell’elezione. Nel frattempo, guardiamo non tanto allo spread quanto al livello dei nostri tassi a 10 anni, ben inferiori a quelli americani. Un livello che è vicino ai minimi storici e che assicura la sostenibilità del debito pubblico italiano.
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