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Ursula von der Leyen e Mario Draghi

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L’Italia – si dice da sempre – è un’economia di media stazza, che galleggia sulla corrente del ciclo internazionale. Significando, questo, che non ci possiamo permettere di andare controcorrente, che dipendiamo da come va il resto del mondo. Ma le cose non stanno veramente così (purtroppo).

Negli ultimi vent’anni ci siamo permessi di andare controcorrente: quando le cose nel resto del mondo andavano bene, noi restavamo indietro; e quando le cose andavano male, da noi andavano peggio. Invece di nuotare con la corrente, annaspavamo. Negli ultimi trimestri è successo qualcosa di strano, smentendo un’altra volta – e questa volta in senso positivo – la proposizione iniziale (che l’Italia è condannata a galleggiare sulla corrente del ciclo internazionale).

Il nostro Paese ha allungato il passo, come si vede dai due grafici. Il primo mostra gli indici PMI dell’industria manifatturiera, per l’Italia e per l’Eurozona: il guizzo italiano non ha bisogno di commenti. Il secondo riporta, sempre per Italia ed Eurozona, i ‘superindici’ della Commissione Ue: questi collassano gli indicatori di fiducia che riguardano non solo l’industria ma anche i consumatori, le costruzioni, i servizi in generale e il commercio al dettaglio in particolare. Anche qui si vede come l’Italia abbia allungato il passo rispetto al plotone degli altri Paesi.

Allora, un’Italia ‘locomotiva’? Aspettiamo a pavoneggiarci. Dietro alla nostra performance ci sono molte e valide ragioni: le imprese hanno reagito alla crisi meglio di quanto ci si potesse aspettare, innovando e rimescolando i fattori di competitività, sia quelli dipendenti dal prezzo che quelli diversi dal prezzo.

Per i primi, è da notare che il più basso tasso di inflazione in Italia rispetto agli altri (anche qui una ‘controcorrente’ positiva rispetto al passato) diventa una ‘svalutazione interna’ che aumenta il vantaggio competitivo sui prezzi. Per i secondi, non bisogna dimenticare che le crisi sono dolorose ma, nella vita delle imprese come nella vita delle persone, possono essere un’occasione di crescita.

Per sopravvivere bisogna cambiare, spostarsi su segmenti di valore aggiunto più elevati, ritracciare i mercati di sbocco più promettenti, cambiare le infinite combinazioni di lavoro e di capitale, cavalcare le creste del progresso tecnico…

Ricordo che nei primi anni Ottanta la lira perdeva competitività/prezzo, dato che il rifiuto di svalutare dell’allora governatore Ciampi, unito a un’inflazione italiana maggiore rispetto a quella dei Paesi concorrenti, portava a un apprezzamento reale del cambio, apprezzamento che non era affatto apprezzato dai produttori. Cesare Sacchi, allora direttore dell’Ufficio Studi della Fiat, coniò l’espressione ‘nano robusto’: espressione che era diretta a quanti affermavano che questo apprezzamento reale, per doloroso che fosse, spingeva le imprese ad innovare e a spingere sui fattori di competitività diversi dal prezzo. Sì, diceva Sacchi, è vero, ma molte imprese ci lasceranno le penne. Quelle che sopravvivono saranno sì più efficienti, ma nel complesso il manifatturiero italiano sarà più piccolo: sarà, appunto un “nano robusto”.

Tuttavia, da allora è passato molto tempo, e il manifatturiero italiano continua a essere il secondo in Europa (dopo la Germania): insomma, è robusto e non è un “nano”. Dal 2015 a oggi la produzione industriale in Italia è aumentata di più rispetto a Germania e Francia, e ha anche l’aumento delle esportazioni è stato maggiore.

Un’altra ragione della migliore performance sta nella ritrovata fiducia che il Governo Draghi ha saputo infondere, e nel supporto – monetario e di bilancio – delle politiche economiche. Detto questo, per essere ‘locomotiva’ bisogna avere una capacità di traino che a noi semplicemente manca – non perché non siamo bravi, ma perché non abbiamo la stazza necessaria a tirare il resto dell’Europa fuori dalle secche. Ma, se manca la stazza, non manca il segnale: il segnale che, facendo le cose giuste, è possibile scrollarsi di dosso la crisi ed essere d’esempio per tutti.


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