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Mario Draghi a Bruxelles è stato esplicito. Senza titubanze ha affermato di non essere d’accordo su quota 100, ma di ritenere opportuno un ritorno il meno brusco possibile alla normalità, lasciando così intendere – alla faccia di tutti quelli che la criticano – che la riforma Fornero è la ‘’normalità’’, ovvero ha tracciato il futuro del sistema pensionistico, e che, dopo le tante malversazioni subite, deve essere messa in grado di garantire – sia pure con tutte le ammaccature subite – un sistema pensionistico al riparo della bancarotta.

Quota 100 torna ad essere ciò che è sempre stata. Non una divinità pagana ma una norma – introdotta col decreto n.4/2019 – che ha consentito, in via sperimentale e temporanea, di accedere al pensionamento con 62 anni di età e 38 anni di versamenti contributivi. Peraltro senza convincere neppure gran parte degli aventi diritto e soprattutto senza aprire varchi negli organici aziendali da cui potessero transitare legioni di giovani ad occupare i posti lasciati liberi dai pre-pensionati con imprimatur giallo-verde. In queste ore tutti i talk show dibattono del destino di quota 100 mentre i quotidiani ‘’sbattano il mostro in prima pagina’’.

Quest’opzione – forse per il suo approccio comunicativo – è salita subito agli onori delle cronache, stendendo una coltre di silenzio sull’altra possibilità di esodo anticipato contenuta nel decreto citato e consistente nel congelamento fino a tutto il 2026 dell’adeguamento automatico all’incremento dell’attesa di vita del pensionamento ordinario di anzianità a 42 anni e 10 mesi di contribuzione (un anno in meno per le lavoratrici) a prescindere dall’età anagrafica.

Eppure le statistiche evidenziano un numero maggiore di lavoratori (il maschile è voluto) che ha preferito avvalersi di questa possibilità di uscita piuttosto che di quota 100, perché le coorti dei pensionati baby boomers hanno in generale le condizioni di legge per andare in quiescenza facendo valere 42 anni e 10 mesi ad un’età inferiore a quella attinente a quota 100. Essendo infatti i due requisiti che determinano quota 100 (62 +38) rigidi e concorrenti è successo che la grande maggioranza degli utilizzatori si è trovata all’appuntamento con 38 anni senza aver ancora raggiunto i 62 anni di età o, viceversa, con 62 anni ma con una storia contributiva inferiore.

È successo così che, ad eccezione di circa 30mila soggetti che nel periodo di vigenza hanno azzeccato l’ambo secco, gli altri sono arrivati alla soglia del pensionamento, mediamente, con qualche anno in più dei 62 oppure con una anzianità contributiva più elevata.

Il requisito di elevata anzianità è comune a tutte le fasce di età ma, in particolare, i tre quarti dei 64enni hanno acquisito oltre 40 anni di anzianità contributiva. In definitiva, i lavoratori prossimi al raggiungimento del requisito ordinario di pensionamento anticipato sembrano quelli più propensi ad optare per Quota 100.

Venendo a mancare quota 100 con il suo decantato requisito anagrafico di 62 anni, dall’anno prossimo a parità di contribuzione (38 anni) i soggetti interessati dovranno attendere i 67 anni previsti per il trattamento di vecchiaia oppure attendere fino a far valere, a prescindere dall’età, 42 anni e 10 mesi (un anno in meno le donne) di versamenti.

Abbiamo visto in precedenza come la realtà concreta non sia sempre in grado di indossare braghe della taglia indicata dalle norme, per cui, nei fatti lo ‘’scalone’’ si rivelerà una tigre di carta. Ma la metafora è ormai entrata nell’immaginario collettivo e quindi il governo deve provvedere. Sia chiaro: nessuno si aspetti dei miracoli. Gli strappi inferti al sistema pensionistico, nel 2018-2019, possono essere rattoppati e basta. Le proposte del governo (quota 102 ovvero 64+38 dal 2022 e quota 104 ovvero 66+38 dal 2023) si muovono sulla sola strada percorribile che supera quota 100 ‘’in avanti’’; ma contiene, per come è stata riportata nel dibattito, dei vistosi errori tecnici.

In sostanza, lo scalone si trasformerebbe – come vedremo – in un tunnel senza uscite intermedie. Quando si incrementa l’età del pensionamento occorrerebbe lasciare almeno un anno di tregua; altrimenti quanti non riuscissero a maturare, nel 2022, i requisiti per il pensionamento (64 anni e 38 di contributi), non sarebbero in grado di varcare l’agognata soglia neppure l’anno dopo perché i requisiti anagrafici sarebbero di nuovo aumentati (66 anni e 38 di contributi); così gli scalini si trasformerebbero in un piano inclinato che farebbe scivolare il soggetto interessato, senza alcuna via d’uscita intermedia, fino ad un anno prima del compimento dell’età prevista per la pensione di vecchiaia.

È evidente che anche l’inserimento di un ulteriore scalino tra i due (quota 103 ovvero 65 + 38) non risolverebbe il problema. Inoltre non pare che abbia molto senso allungare il pensionamento anticipato fino a un anno in meno rispetto a quello di vecchiaia (67 anni con almeno 20 anni di contributi nel sistema misto).

Se si avesse una visione complessiva del problema e non si ricorressero le bandierine (da parte di chi vuole difenderle come di chi vuole ammainarle) sarebbe molto più saggio scegliere tra altre due soluzioni: 1) una sola tappa intermedia che resti in vigore fino al 2024 e contemporaneamente, alla scadenza, anticipare la fine del blocco del trattamento di anzianità ordinario (ora fissato a conclusione del 2026); 2) in alternativa, due tappe distanziate di almeno due anni dall’entrata in vigore (per esempio 2022 e 2024) allo scopo di allineare la conclusione del percorso al 2026 come l’altro relativo al trattamento ordinario.

Infine, si potrebbero aggiustare i requisiti per ottenere l’Ape sociale, senza cadere nella trappola predisposta dalla Commissione presieduta da Cesare Damiano, che, nel rapporto conclusivo, ha allargato a dismisura le categorie che svolgono lavori riconosciuti come disagiati, sia pure indicando una linea di priorità sulla base dell’intensità del disagio.

Ma questo è il modo – abusato nei concorsi pubblici – per promettere che, prima o poi, verrà il turno di tutti. Pare che sia questa l’idea che gira nel cervello (‘’Dio lo riposi!’’) di Enrico Letta. Le quote sono infatti norme di carattere generale, applicabili a tutti, mentre individuare vie agevolate (magari attraverso un rafforzamento dell’Ape sociale) per situazioni di vero disagio potrebbe essere più equo. Nessuno si illuda, però. Non ci sarà un disegno organico: si socchiuderà il portone principale (il sistema delle quote), ma resterà spalancato l’accesso secondario (l’anzianità ordinaria congelata), da dove proseguirà un’uscita ininterrotta, magari alla chetichella e senza le luci della ribalta. Nelle ultime ore si parla di una mediazione a quota 103 (65+38) a partire dall’anno prossimo. Più che uno scalino, si tratterebbe di uno scalone a metà.

Ma non si risolve un problema creandone un altro. Se quota 103 sarà la soluzione, sarebbe opportuno ‘’flessibilizzare’’ la somma dei due criteri (anagrafico e contributivo), magari fornendo almeno un’alternativa come ‘’64 + 39’’, allo scopo di evitare in parte quelle frizioni tra i due requisiti evidenziatisi con quota 100, dei quali abbiamo parlato prima. Comunque nessuno è autorizzato a fare il furbo. In modo contorto e mediato, con l’anno nuovo il sistema (un po’ provato e malconcio) rientrerà gradualmente lungo i binari della riforma Fornero che non è mai stata abrogata, ma derogata in modo sperimentale e temporaneo.


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