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C’è qualcosa che toglie il sonno al ministro per la Transizione green Cingolani. Più dell’ideologismo ambientale e dei radical chic che affollano la scena. Più del nucleare di ultima generazione che ha suscitato l’ira dei 5Stelle e di Conte. C’è da sciogliere un groviglio intricato che rischia di far saltare il PNNR: il ginepraio dei regolamenti che si affastellano l’uno sull’altro e proliferano all’ombra delle regioni.

I governatori marcano il territorio cospargendolo di restrizioni, complicano l’utilizzo dei fondi Ue per le energie rinnovabili. Una mission impossible se non si troveranno scorciatoie e vie brevi per l’approvazione dei progetti.

Dall’ultima ricognizione svolta dal GSE (Gestione servizi elettrici Spa) emerge che in Italia, prima che la legge 56/2014 cominciasse a dispiegare i propri effetti, erano ben 81 (leggasi ottantuno) le amministrazioni pubbliche locali, tra Regioni e Province, che esercitano le funzioni amministrative del procedimento unico per il rilascio dell’autorizzazione di impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili. Mentre tra regioni e province erano 68 le amministrazioni che svolgevano le funzioni di autorità competente per le procedure di Via (Valutazione impatto ambientale) per realizzare impianti di energia rinnovabile,

L’ultimo aggiornamento dei dati raccolti dalla GSE risale a 3 anni fa. la situazione a quante pare però non è cambiata. Casomai per difetto, considerando che l’elenco degli enti coinvolti nelle procedure non tiene conto dei comuni e delle sovrintendenze.

Mettere i bastoni tra le ruote è un esercizio molto diffuso nel BelPaese. E le energie rinnovabili sono argomento caldissimo, anzi bollente, visto il prezzo delle materie prime schizzato proprio in questi giorni alle stelle- Aumenti che in autunno incideranno sulle bollette degli italiani anche per un 40%.

A questo punto però è importante ricordare alcuni passaggi. La riforma del Titolo V della Costituzione consente alle Regioni di legiferare autonomamente nel settore energia. Stato e regioni concorrono nell’elaborazione della normativa di riferimento. O meglio così dovrebbe essere. E’ una materia molto complessa, le Regioni, che in alcuni casi delegano le Province, dovrebbero di regola seguire le Linee Guida che a livello nazionale vengono emanate dai ministeri competenti. Lo Stato ha il compito di disciplinare i principi fondamentali; le Regioni e le province autonome di legiferare nel rispetto degli indirizzi statali.

Il monitoraggio dei regolamenti compete appunto alla GSE, “la società – si legge nel sito istituzionale – individuata dallo Stato per proseguire e conseguire gli obiettivi di sostenibilità ambientale nei due pilastri delle fonti rinnovabili e dell’efficienza energetica”. La GSE ha dunque il compito di fornire un costante aggiornamento delle norme che disciplinano in Italia e a livello internazionale il contesto energetico. E ogni anno la società aggiorna la sua banca dati.

2030 ODISSEA NELLE REGIONI

Al di là delle lungaggini legate alla complessità degli iter autorizzativi (un esempio su tutti: le conferenze dei servizi), le Regioni avrebbero tutto l’interesse ad agevolare l’installazione di impianti di produzione a fonti rinnovabili. La cosiddetta normativa del burden sharing prevede infatti che, nell’ambito degli obiettivi nazionali in tema di consumi finali lordi di energia coperti da fonti rinnovabili, ciascuna Regione abbia un suo sotto-obiettivo da raggiungere entro il 2030, (in linea con gli accordi di Parigi,in base ai quali il 70% di energia elettrica dovrà arrivare dalle rinnovabili. Una spinta alla produzione di energia “alternativa”.

Risultato: ogni regione si va in ordine sparso. La disputa scatta tutte le volte che vanno definite le aree idonee o non idonee all’installazione di impianti. Succede nel Lazio, Veneto, Marche, Umbria, Basilica, etc, etc. Succede nei piccoli e nei grandi comuni che anche loro vorrebbero dire la loro. E quando le regioni intervengono per stoppare un progetto si annega nella carta bollata. Lo Stato può anche impugnare la legge regionale dinanzi alla Corte costituzionale (è successo in Basilicata)

Chi finisce stritolato in questo meccanismo è il Ministero per la transizione ecologica. Il Superministero che avrebbe dovuto essere nelle intenzioni di Beppe Grillo il giardino segreto del M5S. L’arma per accettare il governo Draghi e ingoiare la pillola.

Chiaro che senza un quadro omogeneo, senza una coerenza delle politiche regionali, non basteranno le buone pratiche. Che finchè il caos normativo regnerà sovrano sarà durissima venirne a capo. Si pensi che tra le regioni centro-settentrionali a statuto ordinario le uniche che hanno mantenuto in via esclusiva l’esercizio della funzione autorizzativa sono Toscana, Umbria ed Emilia Romagna, tutte le altre le hanno spalmate.

LA DIRETTIVA EUROPEA

Sempre a proposito degli iter autorizzativi, è importante ricordare che, nell’ambito della Direttiva Europea cosiddetta Red II, il decreto legislativo di recepimento italiana (in via di approvazione) prevede che siano individuate a livello locale le superfici e le aree idonee e non idonee per l’installazione di impianti a fonti rinnovabili, tenendo naturalmente presenti alcuni parametri relativi alla tutela del patrimonio culturale e del paesaggio, delle aree agricole e forestali, della qualità dell’aria e dei corpi idrici. Per gli interventi da realizzare nelle aree idonee è previsto che il parere delle Sovraintendenze non sia vincolante per autorizzare la costruzione di un impianto a fonti rinnovabili, ciò al pari di quanto già precedentemente stabilito dal DL Semplificazioni in relazione agli interventi ricompresi nel PNRR. Ma nella pratica sarà così?

Quanto inciderà il combinato disposto Regioni,“No gas”, No eolico, i No fotovoltaico, “No tutto” sui tempi di approvazione dei progetti?

Per infondere un po’ di ottimismo si fa osservare dal GSE che queste novità normative, in aggiunta ad alcune ulteriori semplificazioni sugli iter autorizzativi – ad esempio quelle afferenti alla realizzazione di revamping di impianti eolici – già introdotte a livello normativo, potranno meglio indirizzare i processi autorizzativi a livello regionale. In questo modo si ridurrà il blocco della transizione green.

Transizione verde che, è appena il caso di ricordarlo, rimane la protagonista principale del PNNR. Le risorse per i soli progetti di efficienza energetica, sono allocati nella Missione 2. “ Economia circolare e agricoltura sostenibile. Sono previsti investimenti nelle fonti di energia rinnovabili, nello sviluppo della filiera dell’idrogeno, nelle reti e le infrastrutture di ricarica e per la mobilità elettrica, altro tema che investe da vicino il futuro delle zone più urbanizzate e nostre città.

72 MILIARDI PER IL GREEN 15,64 PER LE RINNOVABILI

Dei circa 72 miliardi destinati al green, le rinnovabili ne assorbono 15,64. Dentro il finanziamento di questo voluminoso dossier ci sono i progetti destinati all’utilizzo delle energie rinnovabili nei porti. I cosiddetti green ports, per i quali sono stati previsti 270 milioni di euro.

Va da sé che il Mite senza la collaborazione delle regioni e delle province non potrà mettere in moto la macchina e fare tutto da solo. E non sarà la solerzia degli impiegati di via Cristoforo Colombo a decidere le sorti di questa rivoluzione verde. Decisivo sarà superare il decennale contrasto tra lo stato centrale e i poteri locali spalmati a pioggia nella fase più enfatica del federalismo di stampo leghista. La duplicità delle funzioni, la moltiplicazione dei timbri. La possibilità di esprimere veti e bloccare tutto sempre e dovunque, le schermaglie legali infinite che spesso si concludono con un niente di fatto e dunque con la sconfitta di tutte le parti in causa.

LA DOMANDA DELLE CENTO PISTOLE

Il GSE è deputato per legge al monitoraggio delle attività regionali in materia di fonti rinnovabili, ma non partecipa in alcun modo al processo di formazione delle norme regionali né tanto meno segue il corposo contenzioso Stato/Regioni che in materia di ambiente ha inondato nel corso degli anni gli uffici della Consulta. Una materia che le regioni più autonomiste, come la Lombardia, il Veneto e l’Emilia-Romagna rivendicano in toto e non vogliono più dividere con lo Stato. I dati disegnano realtà molto diverse tra loro. Ad esempio che In numerose province dell’Italia centro-settentrionale gli impianti eolici sono presenti con una potenza installata non superiore all’1% del totale nazionale; in diversi territori provinciali tali impianti sono del tutto assenti. La provincia di Foggia detiene invece il primato nazionale con il 19,7% della potenza eolica installata, seguita da Potenza (9,4%), Avellino (7,1%), Benevento (6,8%) e Catanzaro (6,3%).

I processi autorizzativi regionali e provinciali cambiano a seconda della tipologia, a seconda che si tratti ad esempio di impianti termici o termoelettrici. Una babele geografica di regole e contro regole, con i confini segnati in alcuni casi solo sulla carta perché non esiste ancora una mappatura dei suoli (Lazio) .

Ed eccoci alla domanda dalle cento pistole? Riuscirà Roberto Cingolani, il ministro-scienziato a districarsi nella giungla dei potentati regionali, saltare gli steccati eretti dai governatori e a rispettare i tempi previsti a Bruxelles? Chi lo conosce non esita dire che ne avrebbe le capacità. Potrebbe riuscire dove in tanti hanno fallito. In questi giorni dicono sia “intrattabile”. Ha scoperto che la sede del suo ministero, il Palazzo sulla Cristoforo Colombo, di ecosostenibile ha molto poco. In compenso l’affitto costa 6 milioni l’anno. Ma questo è un altro discorso che di rinnovabile ha solo il contratto di locazione. Purtroppo.


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