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Quando ero deputato nella XVI Legislatura mi fu proposta una missione in alcuni Paesi dell’Africa occidentale. Non avendo mai visitato quel continente aderii molto volentieri.
Quando mi dissero, prima della partenza, che avrei dovuto sottopormi a sette vaccinazioni contro quelli gravi patologie contagiose di cui avevo sentito parlare solo nei film (e da ragazzo nei libri di Emilio Salgari), pensai di dire addio all’Africa e rinunciare alla missione.
Non sono un no vax; anzi sono un veterano della vaccinazione antinfluenzale e da scolaretto mi sono obbligatoriamente vaccinato contro il vaiolo (non era affatto una passeggiata), ma ormai anziano decisi di non avere nulla che fare con la febbre gialla, la mosca tzè tzè e dintorni.
Non mi passò mai per la mente che fosse inculcata la mia libertà: non ti vaccini, stai a casa tua senza mettere a rischio la tua salute e quella degli altri.
Ecco perché ritengo assolutamente corretta e giustificata la linea annunciata dal presidente Macron volta ad incoraggiare – con limiti alla mobilità delle persone – la sottoposizione alle misure di prevenzione anti-coronavirus (ammesso che sia consentito usare il nome del capostipite di un’intera dinastia di virus).
Per talune specifiche categorie (il personale sanitario e scolastico) la vaccinazione deve essere obbligatoria. In altri casi – per esempio nel lavoro privato alle dipendenze – il sottoporsi alla somministrazione del vaccino rientra, a mio avviso, tra gli obblighi contrattuali il cui inadempimento è passibile di risoluzione del rapporto di lavoro.
Occorre arrivare ad una situazione in cui il certificato dell’avvenuta vaccinazione o l’esibizione di un tampone negativo recente devono essere richiesti nei casi di assembramento ‘’sociale’’ evitando le esagerazioni e la consueta penalizzazione di alcune attività economiche.
Deve essere previsto un solo divieto: bloccare l’economia; mettere a rischio la ripresa produttiva che risulta superiore delle più rosee previsioni, non solo per quanto riguarda le esportazioni (il talismano della nostra manifattura e del made in Italy) ma anche il mercato interno.
Del resto l’esperienza compiuta da marzo 2020 ad oggi dovrebbe averci insegnato parecchio. Si saranno accorti anche i virologi d’antan che il lockdown dello scorso anno è servito soltanto a far calare di nove punti il Pil, ma non a debellare il contagio, che è ripartito in autunno e che ripartirà sotto nuova specie ancora per anni, se non per sempre.
Occorre cambiare strategia, anche perché ne abbiamo gli strumenti. Il lockdown poteva essere giustificato quando la lotta al contagio la si faceva con l’acqua e il sapone; adesso abbiamo i vaccini. Un maggiore impegno va profuso sul terreno delle terapie e su quello dell’organizzazione sanitaria, alleggerendo le strutture ospedaliere le quali dovranno pure cominciare ad occuparsi di altre gravi patologie che da mesi vengono trascurate.
Ma la ripresa dell’economia va salvaguardata anche dalla propaganda in corso contro lo sblocco dei licenziamenti. Persino il ministro Andrea Orlando, nell’intervista al Foglio, ha smentito le voci allarmistiche.
«Allo stato attuale, in linea di massima, l’andamento (dei licenziamenti, ndr) non individua una dinamica particolarmente diversa da quella precedente alla pandemia».
Il ministro fornisce degli importanti chiarimenti e mette in campo alcune riflessioni chiarificatrici dell’attuale situazione. Innanzi tutto – conferma Orlando – il blocco non ha mai impedito i licenziamenti per cessazione delle attività. Inoltre- ha aggiunto- la cassa Covid «è stata una specie di anestetico che ha rallentato alcuni orientamenti e alcune decisioni che probabilmente le imprese avevano già in mente».
Poi dando sfoggio di un serietà ammirevole il ministro ha smentito le analisi fasulle di chi collega il caso delle nuove vertenze aperte allo sblocco dei licenziamenti. Whirpool-Embraco, Gkn, Gianetti ruote «sono aziende che scontano problemi pregressi».
In effetti, con tutta la solidarietà dovuta a questi lavoratori, bisogna pur dire che le imprese di cui si parla in questi giorni non sono la testimonianza di una crisi dell’industria né il prodromo di una marea di licenziamenti collettivi. Un’azienda che chiude ha sempre licenziato il personale.
A chi scrive vengono in mente le polemiche scatenate a suo tempo dalla vicenda della Banca Etruria e delle altre che entrarono in crisi nello stesso tempo.
Per motivi politici si menò gran scandalo fino a mettere sotto tiro l’intero sistema bancario con la costituzione di una commissione di indagine parlamentare che, solo grazie alla sapienza del suo presidente Pierferdinando Casini, non determinò gravi danno all’economia nazionale. Eppure, si trattava di una quota dell’intera raccolta che non arrivava all’1%.
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