Simboli di partito
4 minuti per la letturaSi avvicina il momento in cui la Commissione Europea darà il via libera al nostro PNRR. Se in maniera incondizionata o mettendo qualche paletto lo vedremo. Più probabile la seconda ipotesi perché una commissione d’esame fa fatica a rinunciare a far sapere che ha valutato sino in fondo. Qualcosa si è iniziato a fare, ma siamo alla cosiddetta pre-tattica: guardare al capitolo Giustizia per farsi un’idea. Il problema è che non si è ancora deciso il vero cronoprogramma: non quello del PNRR, ma quello della politica in senso stretto. Innanzitutto non è del tutto chiaro quanto tempo le forze politiche vogliono concedere alla fase d’avvio, che non può avvenire se non stabilendo con quale governo si intende andare avanti.
Ora sembra che il quadro di riferimento sia cambiato, perché almeno a parole tutti sostengono di voler concludere la legislatura a scadenza naturale nel 2023. E’ una buona notizia? Dipende, risponderemmo prudentemente. Il sottinteso è che questo governo vada avanti sotto la sapiente regia di Draghi. Si potrebbe sofisticare se la sede migliore per esercitare questa regia sia Palazzo Chigi o il Quirinale, ma prima di arrivarvi si devono affrontare dei passaggi. Il più ostico è come evitare che i partiti continuino a ragionare nell’ottica di prepararsi le carte migliori per le elezioni future, il che significa vivere per due anni in campagna elettorale permanente. Sarebbe sopportabile se i partiti si misurassero su come affrontare al meglio la sfida della grande ricostruzione a cui siamo chiamati, ma le premesse non sembrano andare in questa direzione.
Nonostante molti segnali ci facciano capire che il vento del populismo ha perso forza, non ci scostiamo dall’inseguirlo. L’andamento delle recenti elezioni regionali in Francia mostra disaffezione nel pubblico verso la politica delle “narrazioni”, quelle della Le Pen, ma anche quelle di Macron, e un ritorno ai lidi di un conservatorismo tradizionale. Lo si era visto anche in Gran Bretagna, per certi versi in Spagna, vedremo come andranno la amministrative d’autunno in Italia, sebbene anche da noi nelle regionali del 2020 qualche cambiamento in quella direzione fosse già percepibile.
Al momento però i partiti rimangono legati tutto sommato alla stagione dei confronti delle ideologie all’amatriciana, quelle legate al compiacere con disinvoltura le mode correnti (sino a spingersi alla stupidaggine di mettere in una legge sull’agricoltura passata al Senato il riconoscimento di una pseudoscienza dell’agricoltura biodinamica, roba da stregoneria a fumetti). L’incertezza sulla tenuta degli equilibri tanto nel centrodestra quanto nel centrosinistra spinge i partiti a concentrarsi sull’arrocco nelle loro cittadelle tradizionali. Per farlo hanno bisogno di accentuare la polemica del “nemico alle porte”, di alzare in continuazione bandiere e bandierine senza tenere in gran conto gli effetti negativi che questo può comportare sull’azione di governo.
Scarsa attenzione ricevono i segnali degli spazi che alcuni grumi di potere burocratico si riservano e difendono con le unghie e coi denti. Non sfugge agli osservatori più attenti che le recenti polemiche sulle strutture che “circondano” il ministro della Salute Speranza lasciano intendere che non tutto è sotto controllo nella rete delle burocrazie ministeriali. E discorsi simili si dovrebbero fare su quelle regionali e comunali come si evince dalle tante incongruenze di comportamento che sono rilevate nelle campagne vaccinali delle diverse zone d’Italia.
Piuttosto che discutere, o meglio, invece di raccontarci come saranno i partiti quando si tornerà a votare, sarebbe necessario che intanto spiegassero se e fino a quando sono intenzionati a salvaguardare la tregua funzionale che consente a questo governo di eccezione di affrontare l’avvio della prima fase del PNRR. Tocca ai partiti proprio perché sono, bene o male, le reti connettive dei diversi terminali del nostro sistema istituzionale che dovrà occuparsi di quel problema: dal governo, alle regioni, ai comuni, siamo in presenza di un contesto di potere a base rappresentativa che ha nei partiti il suo snodo. Dovrebbero essere anche il suo raccordo su base nazionale, ma vien da sorridere a scriverlo considerando quanto poco i loro centri nazionali siano in grado di coordinare una disseminazione di potentati locali.
Eppure non ci vuol nessun acume particolare per capire che non si può andare avanti due anni con la ricerca di fusioni, di nuove identità, di colpi di teatro per mantenersi sotto la luce delle telecamere e dei social, in una guerra che alla fine diventa, sia pure spesso in forme subdole, di tutti contro tutti. Non si può dimenticare che il parlamento rimane un passaggio obbligato, capace al momento più che di produrre consenso intorno a progetti, di minacciare ricatti incrociati perché si eviti di decidere su alcunché (vedere il capitolo relativo alla riforma della legge elettorale).
Quei partiti che si sono convinti di avere bisogno di tempo, appunto un paio d’anni, per sistemare le loro faccende debbono rendersi conto che quel tempo ha un costo: devono consentire un ordinato sviluppo della prima fase del PNRR, una gestione oculata del passaggio di mandato al Quirinale, un percorso di riforme che incidano su nodi che strozzano il sistema (giustizia, pubblica amministrazione, fisco, politiche attive del lavoro, ecc.). Devono farlo rinunziando a quelle bandierine che amano tanto i loro supporter fanatici. Altrimenti che salti il banco sarà molto più di un rischio.
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