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Perché i romani chiamavano il Mar Mediterraneo Mare Nostrum? Gli antichi Romani chiamavano il Mediterraneo, Mare Nostrum perché tutte le terre affacciate in esso appartenevano all’antica Roma.
Il Mare Mediterraneo, culla di civiltà e della nostra storia, è delimitato a nord dall’Europa, a sud dall’Africa e a est dall’Asia. Un teatro strategico davvero raro e che in questi ultimi anni ha raggiunto, come attività legata agli scambi, livelli davvero inimmaginabili.
Per questo utilizzando anche Wikipedia ho ritenuto utile ripercorrere un po’ la storia che ha trasformato questo mare negli ultimi venti anni.
Cominciamo con l’espansione turca iniziata già da tempo nel mare nostrum attraverso i crescenti investimenti nelle infrastrutture portuali. Una strategia di soft power impiegata già dalla Cina, che ha inserito il Mediterraneo nella Via della seta marittima e che ha ugualmente aumentato la propria presenza e influenza grazie alla cooperazione marittima con i Paesi mediterranei.
Nel 2013 il presidente cinese Xi Jinping annunciò il faraonico progetto della Nuova via della seta (o Road Belt Initiative, Bri), il cui obiettivo era quello di collegare l’Asia all’Europa e all’Africa via terra e via mare aumentando gli interscambi commerciali tra i continenti e permettendo così alla Cina di espandere la propria influenza. Oltre ai più noti progetti infrastrutturali terresti,
Pechino ha investito anche sul trasporto marittimo e lo ha fatto ancora prima della presentazione ufficiale della Nuova via della seta. Una delle più importanti acquisizioni cinesi risale infatti al 2008, quando la China Ocean Shipping Company investì 4,3 miliardi di dollari per l’acquisto di due terminal del porto greco del Pireo con un usufrutto esclusivo per i 35 anni seguenti.
Da quel momento in poi l’ascesa di Pechino è stata lenta, ma costante. Un’altra tappa importante della strategia cinese è datata novembre 2015, quando ormai la Bri era stata pubblicamente annunciata e il Governo cinese iniziò a stringere accordi con i singoli Stati per il suo sviluppo. A guidare l’avanzata cinese nel Mediterraneo sono stati principalmente tre grandi compagnie: Cosco Shipping Ports, China Merchants Port Holdings (CMPort) e Qingdao Port International Development (QPI).
Queste tre aziende hanno quote rilevanti nei porti del Pireo (Grecia), Valencia e Bilbao (Spagna), Marsiglia (Francia), Vado Ligure (Italia), Casablanca e Tanger Med (Marocco), Ambarli (Turchia), Port Said (Egitto), Cherchell (Algeria), Haifa e Ashdod (Israele). Una rete che copre quasi tutto il Mediterraneo e che garantisce alla Cina una presenza significativa in un’area particolarmente strategica dal punto di vista commerciale.
Ad investire sui porti del Mediterraneo per aumentare la propria presenza nel mare nostrum c’è stata anche la Turchia grazie all’azienda Yilport Holding (appartenente al più grande Gruppo Yildirim) che si occupa principalmente di logistica. Come sottolineato recentemente da Limes, l’obiettivo della Turchia è puntare su investimenti nella logistica per lasciare ad altri – come ad esempio la Cina – il settore del commercio. I due Paesi, pur perseguendo lo stesso obiettivo, hanno adottato strategie diverse e complementari, che permetteranno loro di fare fronte comune per favorire i rispettivi interessi nell’area mediterranea.
A legare Ankara e Pechino e a renderli potenziali partner nella corsa al Mediterraneo è anche la presenza della Yilport nella Ocean Alliance, il gruppo creato dalle compagnie Cosco Shipping Lines, Cma Cgm, Evergreen e Orient Overseas Container Line per far fronte ai danni causati dall’emergenza coronavirus.
Della compagnia turca Yilport si è tornati a parlare di recente in merito al porto di Taranto: l’azienda ha ottenuto una concessione di 49 anni e promesso investimenti per 400 milioni di euro per lo sviluppo del San Cataldo Container Terminal, precedentemente nelle mani della taiwanese Evergreen. Lo scalo ionico garantisce alla Turchia una posizione strategica di accesso al mar Mediterraneo: Taranto si trova sulla rotta tra Gibilterra e il Canale di Suez Ma Taranto non è l’unico porto gestito dalla Yilport che affaccia sul mare nostrum: la compagnia turca si trova anche nel porto maltese di Marsaxlokk, per cui il suo arrivo nel terminal tarantino non fa che rafforzare la presenza nell’area mediterranea e più in generale la sua competitività.
Tra l’altro la Turchia ha porti come quello di Ambarli con oltre 3 milioni di container e Mersin con oltre 1,5 milioni di container che, anno dopo anno, stanno sempre più diventando HUB forti nel Mediterraneo.
Questa la storia, ma tutto sarebbe rientrato nella normale descrizione di una naturale evoluzione dei processi logistici che interessano l’intero “sistema Mediterraneo” se, negli ultimi anni, non fossero partite due iniziative che da sole denunciano e motivano perché il Mediterraneo non è più Mare Nostrum.
La prima azione è la realizzazione del collegamento ferroviario e autostradale tra Bar (porto del Montenegro) e la Serbia.
La tratta ferroviaria è stata già oggetto di un’apposita fattibilità da parte delle Ferrovie dello Stato attraverso la Società Italferr mentre per l’asse autostradale il Governo del Montenegro e la Cina hanno firmato, nel 2014, un contratto di ben 1 miliardo di dollari per la costruzione di un’autostrada che avrebbe dovuto collegare il porto di Bar con i Balcani e con la Russia e, al tempo stesso, aumentare il turismo nel Paese.
Infatti l’autostrada di cica 130 Km si sarebbe dovuta collegare a una rete di autostrade dei “corridoi paneuropei” inseriti nelle Reti TEN – T. In realtà questa infrastruttura attualmente vive due distinte emergenze:
- il contratto per il finanziamento cinese prevede il pagamento del debito entro vent’anni, con un interesse del 2 per cento. Per i primi sei anni il Montenegro non ha dovuto pagare nulla, la prima rata sarebbe dovuta arrivare nel 2021. Tra poche settimane scadono i “sei anni bianchi”, ma il Montenegro non ha i soldi per pagare la prima rata. E qui si collega il secondo problema:
- l’opera non è conclusa. Infatti dei 130 km di autostrada previsti ne sono stati portati a compimento solo 41 km.
I due assi in corso di progettazione e, in parte in corso di realizzazione, rappresentano un cordone ombelicale terrestre tra la Russia, i Balcani ed il Mediterraneo.
La seconda azione è il progetto che proprio in questi giorni il Presidente turco Erdogan ha annunciato: per giugno partiranno i lavori del Kanal Istanbul. Attraversare da Nord a Sud i 45 chilometri della Tracia orientale per creare un nuovo istmo e fare posto a un Bosforo parallelo. Il 27 marzo di questo anno la Turchia ha approvato i piani di sviluppo per un enorme canale ai margini di Istanbul.
Il canale collegherà il Mar Nero a nord di Istanbul al Mar di Marmara a sud e si stima che costerà 9,2 miliardi di dollari. Il governo afferma che faciliterà il traffico marittimo sullo stretto del Bosforo, uno dei passaggi marittimi più trafficati del mondo, e preverrà incidenti simili a quello sul Canale di Suez.
Inoltre, la costruzione potrebbe aumentare la tensione già esistente della Turchia con la Grecia e Cipro – Paesi che negli ultimi anni hanno registrato una crescente vicinanza a Israele – e quindi influenzare anche gli interessi di Israele nel Mediterraneo orientale.
Due azioni che non solo allargano il teatro logistico ma che, a mio avviso, offrono a tre porti del Mar Nero, due turchi ed uno russo, di diventare sempre più competitivi di tutti gli altri porti del Mediterraneo. In tutto questo il nostro Paese dovrà decidere se cambiare davvero la sua politica portuale, se cambiare davvero la sua offerta portuale.
Nell’arco di soli dieci anni questo nuovo bacino fatto di due mari (Mediterraneo e Mar Nero) movimenterà oltre 80 milioni di container il rischio che l’Italia resti, come avviene ormai da diversi anni, sulla soglia di 10 milioni di container.
Stiamo in realtà perdendo quella rendita di posizione che poneva il nostro Paese al centro di questo bacino – motore di tante economie e la cosa più grave è che negli ultimi anni non c’è stata coscienza di un simile grave ed irreversibile danno, di questo grave blocco alla crescita.
Ancora una volta dobbiamo ammettere che nel nostro Paese è mancata intelligenza pianificatoria e gestionale nella organizzazione della offerta logistica portuale e questa nostra carenza ha consentito a Paesi come la Russia, la Turchia e la Cina di costruire le condizioni per un aumento di oltre il 200% delle potenzialità logistiche di un bacino che sarebbe rimasto controllato e gestito dai Paesi che si affacciavano su questo invidiabile teatro delle convenienze.
Ora rimane, a mio avviso, possibile solo una proposta: trasformare in Società per Azioni al massimo quattro realtà portuali del nostro Paese e dare origine a vere e misurabili alleanze con coloro che ormai hanno disegnato una cabina di regia vincente di questo nuovo sistema logistico; in questa operazione il Mezzogiorno potrebbe e dovrebbe svolgere un ruolo ed una funzione essenziale.
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