L'impianto dell'ex Ilva
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OTTO anni e sei governi, da Monti sino al Conte bis, non sono stati sufficienti a dare certezze non solo all’ex Ilva di Taranto e al sacrosanto diritto alla salute dei tarantini, ma nemmeno ad uno degli asset più importanti per l’Italia, quello dell’acciaio. E ora? Gli scenari sono tre: dalla resa e chiusura, alla riconversione energetica spinta dal governatore Michele Emiliano, al proseguimento del piano pensato per Acciaierie Italia, l’azienda costituita da Am InvestCo Italy e Invitalia.
TANTI INTERROGATIVI
Di fondo c’è un problema: senza certezze non si può fare impresa, e in questa storia ci sono più punti interrogativi che piani industriali e ambientali. L’impressione è che a far pendere l’ago della bilancia possa essere la decisione del Consiglio di Stato, che deve pronunciarsi nel merito dell’ordinanza del sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, che ordinò lo spegnimento degli impianti nell’area a caldo. Provvedimento che fu “convalidato” dal Tar di Lecce, i giudici di secondo grado, invece, accolsero la richiesta di sospensiva presentata da ArcelorMittal, quindi sono stati congelati gli effetti della sentenza del Tribunale amministrativo. Se il Consiglio di Stato dovesse ritenere legittimo l’atto di Melucci per il siderurgico sarebbe il colpo di grazia. A quel punto non ci sarebbero altre soluzioni allo stop dell’area a caldo.
Di fatto, la sentenza penale di primo grado di ieri non sposta di molto la questione: la confisca, infatti, non ha alcun effetto immediato sulla produzione, potrà essere operativa solo a valle del giudizio definitivo della Corte di Cassazione. Da rilevare, però, che nel passaggio di proprietà ad Acciaierie d’Italia, è previsto il dissequestro degli impianti come condizione sospensiva. Passaggio per ora collocato entro maggio 2022. “Rispettiamo la sentenza, manca la pronuncia del Consiglio di Stato per avere il polso della situazione. A quel punto sarà possibile capire in che quadro giuridico lo Stato, in qualità di azionista, potrà operare.
Servono certezze per dare una prospettiva di crescita e sviluppo a Ilva e all’acciaio in Italia”, ha ammesso ieri il ministro dello sviluppo Economico, Giancarlo Giorgetti.
PERSI DIECI ANNI
Il nodo è uno, avere certezze. C’è, però, anche un aspetto più prettamente politico: lo Stato può economicamente sostenere un’industria che una sentenza, seppure di primo grado, ha stabilito che produce inquinamento e morti? Certo, si potrebbe obiettare che sino alla pronuncia della Cassazione la storia finale è tutta da scrivere. Ma, per ora, c’è una prima verità giudiziaria di cui tenere conto. Il vero “delitto” è aver perso 10 anni, tempo che sarebbe stato sufficiente ad efficientare il siderurgico.
Persino dall’Europa è arrivata la bacchettata: il 24 gennaio 2019 la Corte di Strasburgo ha condannato il nostro Paese per non aver preso le misure necessarie a proteggere i residenti. I sei governi che si sono susseguiti hanno cercato di bilanciare diritto alla salute e salvaguardia del lavoro a colpi di decreto, senza una visione strategica e imprenditoriale. Il risultato è che le bonifiche miliardarie sono rimaste quasi tutte ferme al palo per diversi anni.
Hanno pagato i tarantini in termini di salute, hanno pagato gli operai, ha pagato l’industria: Ilva produceva oltre 8 milioni di tonnellate all’anno di acciaio, con picchi di 10, ora arriva a stento a 5. Intenzione del governo Draghi è quello di accelerare il completamento degli assetti societari, anche anticipando la data prevista per maggio 2022 dall’accordo con ArcelorMittal. Ma pesano due condizionalità: l’approvazione del bilancio 2020 di ArcelorMittal e la stessa sentenza del Consiglio di Stato sullo spegnimento dell’area a caldo a Taranto.
UN VERO ROMPICAPO
La situazione è ingarbugliata: con un aumento di capitale di 400 milioni di euro, Invitalia due mesi fa è entrata nell‘ex Ilva di Taranto. L’agenzia del ministero dell’Economia (Mef) ha sottoscritto azioni ordinarie della società Am InvestCo Italy, controllata di Arcelor Mittal. Am InvestCo Italy è l’affittuaria con obbligo di acquisto dei rami dell’azienda Ilva in amministrazione straordinaria e per cui Arcelor ha già investito 1,8 miliardi di euro.
Invitalia ha potuto effettuare l’operazione con i contributi in conto capitale assegnati dal Mef e così ha acquisito il 50% dei diritti di voto in Am InvestCo, ora Acciaierie d’Italia. Ma non è finita qui. Tra un anno, a maggio 2022, è previsto un secondo aumento di capitale, che sarà sottoscritto fino a 680 milioni da parte di Invitalia e fino a 70 milioni di parte di Arcelor Mittal.
Tale passaggio sarà dovuto al closing dell’acquisto da parte di Am InvestCo dei rami d’azienda, a patto che vengano soddisfatte alcune condizioni: la modifica del piano ambientale esistente per tenere conto delle modifiche del nuovo piano industriale; la revoca di tutti i sequestri penali riguardanti lo stabilimento di Taranto; l’assenza di misure restrittive, nell’ambito del procedimento penale in cui Ilva è imputata, nei confronti di Am InvestCo.
Il piano industriale concordato fra le due società prevede investimenti in tecnologie per la produzione di acciaio a basso utilizzo di carbonio, tra cui la costruzione di un forno elettrico ad arco da 2,5 milioni di tonnellate l’anno. L’obiettivo è raggiungere 8 milioni di tonnellate di produzione nel 2025.
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