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È cambiato poco o nulla. Nonostante una legge statale, la Madia, già dal 2017 obblighi le Regioni e i Comuni a dismettere le partecipazioni o le società stesse che producono solo passivi, in Italia ne sono attive ancora 5.928, di cui quasi la metà (2.590 per la precisione) sono “società di capitali a partecipazione regionale per la gestione di pubblici servizi”.
È quanto rileva un monitoraggio dell’Agenzia per la Coesione territoriale che rileva come l’obiettivo di dimezzare il numero delle società partecipate non sia stato raggiunto: quelle “cancellate” sono circa un migliaio, rispetto alle tremila che avrebbero dovuto essere dismesse. Almeno a questo si puntava con la legge Madia, una norma che puntava a mettere ordine nel settore e a ridurre i costi.
I NUMERI DEL FLOP
La maggior concentrazione di società a partecipazione pubblica è al Nord: la prima in assoluto è l’Emilia Romagna che ne conta 673, seguono Veneto (635), Lombardia (632), Toscana (552), Piemonte (435). La prima del Sud è la Campania con 404 società, subito dopo c’è la Sicilia (362), tutte in fondo alla classifica le altre regioni del Mezzogiorno: Calabria 139, Puglia 105, un sesto dell’Emilia Romagna a parità di popolazione; Basilicata 49, Molise 47.
Cosa gestiscono queste società? Nella maggior parte dei casi il servizio idrico: in 727 sono nate per questo scopo; segue lo smaltimento dei rifiuti (696), altri servizi non meglio specificati in campo economico (674), energia (563), sanità (509), cultura e servizi ricreativi (483) e trasporti (468). A seguire turismo (409), ambiente (372), agricoltura (355) e così via in una lista infinita.
LA CORTE DEI CONTI
L’anno scorso persino la Corte dei conti è intervenuta duramente sulla società partecipate: «La gestione finanziaria – scrivevano i magistrati contabili – dimostra una netta prevalenza dei debiti sui crediti in tutti gli organismi esaminati. Nel complesso, i debiti ammontano a 104,41 miliardi, di cui circa un terzo è attribuibile alle partecipazioni totalitarie. La gran parte di tali debiti è stata contratta dalle partecipate del Nord Italia (il 74%), con una forte concentrazione in Lombardia (26,5 miliardi), Friuli-Venezia Giulia ed Emilia-Romagna (rispettivamente: 12,71 e 8,89 miliardi)».
A preoccupare i magistrati contabili è anche il massiccio ricorso fatto dagli Enti di controllo degli affidamenti diretti alle proprie controllate, con buona pace delle gare: «Nonostante la rigidità dei presupposti per derogare ai principi della concorrenza, su un totale di 15.139 affidamenti – si legge nella relazione – le gare con impresa terza sono soltanto 828 e gli affidamenti a società mista, con gara a doppio oggetto, 146».
E a chi prova a spiegare questi continui passivi nei bilanci con una congiuntura economica sfavorevole, la Corte dei conti replica così: «In molti settori, (termale, creditizio e fieristico), la crisi assume un carattere strutturale e non congiunturale».
NATE PER INDEBITARSI
Sono società nate per produrre debiti. In tutta Italia nel 2017 erano 7.090, di cui attive realmente 5.766, mentre oggi sono poco meno di 6mila. Danno lavoro a 327.807 persone, ma producono più debiti (104 miliardi) che crediti (53 miliardi). Si occupano di attività diverse (rifiuti, trasporti, acqua) e, soprattutto, gestiscono un fiume di danaro, con risultati spesso non lusinghieri, soprattutto nel Nord Italia.
«Sul piano territoriale – scrivono i magistrati contabili – si rileva che in quasi tutte le Regioni del Nord il fenomeno delle perdite di esercizio non interessi più di un quarto degli organismi ivi censiti, mentre nelle restanti aree il trend negativo è più diffuso (sfiorando il 40 per cento in Calabria e in Sardegna), ma è comunque di minore impatto a livello complessivo. Guardando al profilo quantitativo, si osserva che oltre quattro quinti delle perdite sono concentrate tra gli organismi del Nord».
Le perdite di bilancio accumulate dalle partecipate che si sono “autodenunciate” al ministero dell’Economia nel 2016 sono risultate pari a quasi 600 milioni di euro. E le prime 12 società in profondo rosso sono quasi tutte al Nord, due al Centro, nessuna al Sud. Insomma, le partecipate del Nord realizzano più debiti di quelle del Mezzogiorno (Campania e Sicilia con 3,87 e 3,24 miliardi sono quelle con più “copponi”) e danno anche più lavoro.
UN MARE DI DIPENDENTI
Negli organismi della Lombardia, ad esempio, erano impiegati 59.924 dipendenti, in Emilia Romagna, invece, 30.342 persone, in Veneto 29.296 gli impiegati.
Di contro, in Campania i dipendenti sono 16.805, in Puglia 10.199, in Calabria 4.391, in Basilicata 668, solo la Sicilia (Regione, però, a statuto speciale) si avvicina ai numeri delle Regioni del Nord con 23.512 dipendenti.
Secondo la Corte dei conti, in tutta Italia, «dagli esiti della revisione straordinaria, emerge che il 37,35% delle società versa in condizioni da richiedere un intervento di razionalizzazione da parte dell’ente proprietario».
Perché? Ci sono, ad esempio, società doppione, quelle che hanno più amministratori che dipendenti; e poi ci sono quelle semplicemente fantasma, delle quali non si conoscono né bilanci né scopi e sono oltre mille. Sono 1.701, per la precisione, le società che hanno meno dipendenti degli amministratori: il record spetta al Trentino-Alto Adige, seguito da Lombardia, Veneto, Piemonte e Sicilia (82 su 229).
Dovrebbero essere chiuse, eppure oltre duemila sono state salvate. Se si considera come parametro solamente il fatturato, su 4.603 società, 1.922 (oltre il 40%) presentano un fatturato medio triennale inferiore ai 500.000 euro.
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