Matteo Renzi
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Un Manifesto per i Sud non si nega a nessuno. Partiti, associazioni, movimenti, politici, lobby, l’elenco è lunghissimo. E c’è persino chi nell’enfasi di presentarlo corredato di immagini s’è sbagliato e al posto dei Faraglioni di Capri ha utilizzato il Castello di Duino, maniero che affaccia sul golfo di Trieste. Cambiata la foto il risultato non cambia: l’ennesimo Manifesto.
Risalendo nel tempo se ne potrebbero contare centinaia, tutti uguali eppure diversi. Che siano per la riscossa, per la rinascita, per la ripresa o il riscatto o per qualsiasi altra cosa poco importa. Conta il promotore e contano le firme in calce all’elenco delle richieste, mediamente e chissà perché sempre riassunte in dieci canonici punti. Quasi mai negli ultimi decenni, viste le condizioni in cui versa il nostro Mezzogiorno, sono serviti a qualcosa. Alla fine, però, quel certificato autoreferenziale rimane agli atti. Misura il senso di appartenenza geografico e intellettuale, definisce il perimetro delle correnti, le amicizie e le inimicizie. Chi firma ma anche chi non firma.
L’innocua adesione ad una legittima richiesta di ristoro economico e morale per il Mezzogiorno, rischia di trasformarsi in qualcos’altro. L’adunata per appello nominale dei meridionalisti più in voga del momento, la formale iscrizione ad un country club.
DUE MANIFESTI AL PREZZO DI UNO
Lo smisurato bisogno di lanciare il proprio Manifesto ha contagiato un po’ tutti. C’è la Svimez, l’Associazione per lo sviluppo industriale del Mezzogiorno che ne ha lanciati due. Quello più che meritevole del presidente Adriano Giannola, per l’utilizzo del Recovery Fund che ha raccolto in poco tempo più di 600 firme prestigiose, per destinare al Mezzogiorno 111 dei 209 miliardi del programma Next Generation Ue. E quello del direttore Luca Bianchi, al quale hanno aderito 29 docenti ed esperti, e tra questi Gianfranco Viesti, Guido Pellegrini, gli editori Alessandro Laterza e Carmine Donzelli, l’ex ministro per la Coesione Carlo Trigilia.
La moltiplicazione dei manifesti non sempre è però il risultato di personalismi. A volta è un’esca per accreditarsi. Tale fu il Manifesto per il Sud presentato da Matteo Renzi alla vigilia delle primarie del Pd nel 2012. Con 180 firme stampate in calce presentò, due anni fa, a Napoli, il suo Manifesto Claudio de Vincenti, presidente dell’associazione “Merita” e già ministro per il Mezzogiorno nel governo Gentiloni. Tra i firmatari rettori, presidenti di Confindustria, imprenditori agricoli, attrici maestri di strada ma anche sassofonisti.
Che poi gran parte dei Manifesti rimandino l’immagine di un Sud piagnone, rancoroso, scarsamente rivendicativo, sempre con la mano tesa, questo è un altro discorso. Il rischio che si corre se l’informazione non è centrata come dovrebbe sui diritti costituzionali. Il giornalista Marco Esposito ne ha fatto il suo Manifesto lanciando una campagna perché «il superamento del divario sia al centro dell’azione di governo».
CAMBIARE LA RAPPRESENTAZIONE DEL MEZZOGIORNO
L’errore ci può stare. Meglio il castello sbagliato che il solito Quarto Stato di Pellizza da Volpedo – che tra l’altro è in provincia di Alessandria,- lo sfondo stereotipato di tanti tristi convegni sul Mezzogiorno. Se il Sud vuole cambiare davvero si potrebbe iniziare dal modo in cui viene rappresentato.
Tanto per cominciare meno: Manifesti firmati e calati dall’alto per comunicare un disagio che viene dal basso. Differendo appena dalla traccia iniziale si potrebbe anche sostituire il manifesto con una petizione. Come ha fatto Pino Aprile, giornalista, scrittore e autore tra l’altro di “Terroni”, libro cult del pensiero meridionalista- Ha lanciato una raccolta di firme per riequilibrare un governo “a chiara trazione nordista”, per istituire il ministero dell’Equità.
Aprile fu costretto a sorbirsi anche il rimbrotto de “Il Foglio”, con l’accusa di aver contribuito «a creare la moltitudine berciante dei Stelle», i suoi libri «stanno a Gaetano Salvemini come Chiara Ferragni a Marylin Monroe». Chi di Manifesto ferisce di Manifesto muore.
L’ESPROPRIO PROLETARIO DEL SENATORE CASTIELLO
Articolato sulle classiche 10 proposte è il Manifesto lanciato, venerdi 28 novembre 2019, alle ore 16, dal senatore Francesco Castiello del Movimento 5 Stelle, a Vallo della Lucania. Al punto 5 si chiede l’assegnazione dei terreni incolti ai giovani che intendano intraprendere attività agricole e zootecniche. Una sorta di esproprio proletario da realizzarsi probabilmente attraverso una iniziale occupazione vista la prevedibile ritrosia dei proprietari. Perché c’è anche questo. Uno scenario che ci riporterebbe alla prima strage dell’Italia repubblicana, 1946, l’eccidio di Portella delle Ginestre.
E dove lo mettiamo il grido di dolore lanciato in tempi molto più recenti dall’Alleanza degli istituti meridionalisti? Potrà mai decollare il Mezzogiorno senza l’ennesimo patto d’azione lanciato nel vuoto?
Manifesto. Cioè rendere noto, conoscere. Un mezzo di comunicazione che a volta si coniuga con un predicato verbale. Diffondere promuovere e in alcuni casi manifestare. Una raccolta di firme da esporre può essere più efficace di tante locandine. Si usa per promuovere o bocciare qualcosa o qualcuno, si utilizza dai tempi in cui Gutenberg inventò la stampa a caratteri mobili.
Si parlò di Manifesto quando fu presentata la relazione delle commissioni di inchiesta sul brigantaggio e sullo sfruttamento dei minori nelle zolfatare. In occasione dell’inchiesta di Sidney Sonnino e Leopoldo Franchetti.
«Certamente l’Italia potrà sussistere per molto tempo ancora in quelle medesime condizioni nelle quali vive da 15 anni – si leggeva – sono molte le malattie organiche che non spingono a pronta morte ma in un organismo indebolito, pieno di germi di decomposizione, quelle medesime cagioni che in un corpo sano produrrebbero effetti appena avvertibili, generano lo sfacelo generale». Parole scritte nel 1876. Sembra ieri.
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